Intervista al giovane drammaturgo emiliano

Emanuele Aldrovandi

INTERVISTA A EMANUELE ALDROVANDI


1) Dott. Aldrovandi, cos’è per Lei il Teatro?

"Una delle cose che più mi piace del teatro è che si tratta di una forma di conoscenza “non-descrittiva”. Quando ho iniziato a scrivere il mio primo testo teatrale avevo ventidue anni e mi ero appena laureato in Filosofia con una tesi in cui – riassumendo – sostenevo che i libri di filosofia sarebbero dovuti essere spostati dagli scaffali scientifici e messi in mezzo alla narrativa. Dopo averla studiata per tre anni, mi ero convinto che la filosofia non avesse nessuna possibilità di descrivere il mondo in modo efficace, in quanto era impossibile avere un accesso diretto alla realtà. Perciò avevo deciso di cambiare approccio e mi ero iscritto a Lettere. Il teatro, in quel momento, mi si è mostrato come una forma di conoscenza perfetta per approcciarci a qualcosa che l’essere umano ha continuamente bisogno di raccontarsi – la sua presenza nel mondo – ma non può mai davvero conoscere fino in fondo. Per questo mi risulta impossibile rispondere in modo “descrittivo” alla domanda su cosa sia per me il teatro. Non posso dare una definizione perché per me il teatro rappresenta proprio la possibilità di parlare di qualcosa – quando scrivo – o di assistere a qualcosa – quando sono spettatore – che non ha bisogno di definizioni. Anzi, che supera la necessità stessa delle definizioni e che con la narrazione, la performance, l’evocazione o l’immagine riesce a raccontare qualcosa di me, dei miei simili e del mondo in cui viviamo in un modo in cui nessun altro mezzo artistico potrebbe fare. Lo so, è paradossale che io, spiegando perché non potevo dare una definizione, abbia in un certo senso dato una definizione. Ma a me non piace districare i paradossi, preferisco affrontarli e dargli forma nella loro paradossalità."

2) Quale pensa possa essere la funzione del Teatro nella società attuale?

"Nella società attuale purtroppo quasi nessuna. Perché solo una percentuale risibile della popolazione italiana va a teatro e generalmente, quelli che ci vanno, hanno già avuto modo di riflettere sui temi e le narrazioni che vengono loro proposte. Qualche tempo fa parlavo con un drammaturgo inglese che mi raccontava di un feroce dibattito che era scaturito da un suo testo che prendeva una posizione forte e controversa riguardo a un qualche argomento di attualità, ma credo che questo sia possibile solo in un paese in cui il teatro ha ancora il ruolo di essere in un certo senso “la piazza della società”. Non so se in Inghilterra sia davvero così, visto il recente voto sulla Brexit credo che forse al massimo potrebbe essere così a Londra, non certo in tutte le altre città di provincia. Di sicuro so che questo ruolo del teatro, in Italia, si è completamente perso. Se uno volesse avere un impatto sulla società attuale, dovrebbe fare televisione o mettere dei video su YouTube. Non certo teatro.
Detto questo, però, io credo che il teatro possa avere un’importante funzione per le società del futuro. È importante che i giovani vadano a teatro – soprattutto i ragazzi che magari stanno ancora facendo le superiori o l’università – perché il teatro può aprire visioni su mondi possibili e ha il potere di rompere sinapsi che magari nel sentire comune sono incrostate da decenni. In questo senso il fatto di avere un pubblico così ridotto e un impatto economico-sociale così marginale, lascia al teatro una libertà che altri mezzi non hanno e forse, in certi casi fortunati, uno spettacolo può davvero cambiare il modo che una singola persona ha di vedere il mondo. Forse sbaglio, ma in questo momento della mia vita non credo tanto nelle masse e nei popoli, ma più nelle singole persone. Perciò sarei felice se un giorno, qualcuno più giovane di me che ha fatto qualcosa di bello e di importante, mi venisse a dire che un mio testo gli ha aperto spiragli che non aveva immaginato e ha deviato anche solo di un centimetro il corso della sua vita. Sarebbe la cosa più bella che potrei aspettarmi dal mio “fare teatro”."

3) Qual è, a Suo avviso, il male principale del Teatro contemporaneo?

"Il voler fare teatro a tutti i costi. Forse perché io non ho mai voluto “fare teatro”, ma ho iniziato perché sentivo di avere qualcosa da raccontare. E voglio avere la forza di smettere, quando non avrò più idee. Invece le rendite di posizione, il voler per forza fare spettacoli “perché il nostro lavoro è fare spettacoli” sono cose che uccidono completamente il teatro. Perché il pubblico non è stupido e se ne accorge quando non hai niente da dire. Poi è chiaro che uno deve sopravvivere e questo ti porta a fare tante cose, soprattutto quando sei all’inizio, ma è una dinamica contro cui voglio lottare, almeno per quanto riguarda il mio ruolo di autore. Però credo sia anche un problema più generale, che riguarda il sistema oltre che i singoli e che, ad esempio, le dinamiche contributive in cui quello che conta di più sono i numeri, non aiutano certo a risolvere. Da spettatore, vorrei che gli artisti potessero fare meno spettacoli, e farli meglio."

4) Come descriverebbe l’essenza e la diversità dello scrivere per il Teatro?

"Posso solo fare il confronto con la narrativa, perché sono le uniche due forme a cui ho dedicato tanto tempo. Sia in un caso che nell’altro devi aver ben presente che ogni battuta, ogni storia e ogni personaggio è una specie di iceberg che, se vuoi scrivere qualcosa di profondo, deve avere una base molto larga. Nel teatro però mostri solo la punta, o a volte neanche quella. Nella narrativa invece puoi mostrare anche la parte centrale. Per certi versi una cosa è più facile, per certi versi è più facile l’altra."

5) Qual è stato l'incontro che ha segnato maggiormente la Sua carriera?

"Ce ne sono stati più di uno. Gianfranco Tosi e tutti gli attori non-professionisti che nel 2008 hanno creduto nel mio primo testo – pieno di difetti, ma molto divertente – e hanno deciso di portarlo in scena. Senza quell’esperienza piccola (solo tre repliche in provincia fra Reggio Emilia e Parma) ma così importante per me, forse non avrei deciso di dedicare tanti anni della mia vita al teatro. Marco Maccieri e tutta la compagnia MaMiMò, con cui ho fatto il primo corso di teatro quando ancora facevo l’Università e che poi, dopo essermi diplomato alla Paolo Grassi, mi hanno chiesto di scrivere un testo per loro, iniziando una collaborazione fortunata che dura ancora adesso. Serenella Hugony, insegnante di scrittura alla Paolo Grassi, che mi ha strappato un testo dopo aver letto le prime due righe perché non avevo rispettato la consegna e che, a distanza di anni, credo sia stata una delle persone che mi ha insegnato di più sull’artigianalità della scrittura teatrale. Ultimo in linea temporale Pietro Valenti, che recentemente mi ha dato la possibilità di collaborare su vari progetti con un ente importante come ERT – Emilia Romagna Teatro."

6) Che consigli darebbe ad un giovane drammaturgo?

"Hei, ma anch’io sono un giovane drammaturgo, come faccio a darmi dei consigli da solo? A parte gli scherzi, ho trent’anni e mi sento abbastanza adulto, però è vero che per il sistema teatrale italiano sono un “giovanissimo”. Comunque mi hanno sempre dato fastidio i vecchi che davano consigli, e i giovani che lo fanno rischiano di essere ancora più antipatici e inopportuni. Ognuno ha la sua strada, il suo approccio, le sue esigenze e i suoi obiettivi. L’unica cosa che mi viene in mente di dire – anche a me stesso – è questa: siate umili e accettate le critiche, ma siate fedeli a voi stessi. È un equilibrio molto difficile da trovare, se si esagera da un lato si corre il rischio di diventare autoreferenziali e di perdere importanti occasioni di crescita, se si esagera dall’altro ci si adatta a quello che gli altri si aspettano da noi e in un certo senso si finisce per spegnersi."

7) Qual è il Suo sogno teatrale nel cassetto?

"Scrivere un dramma profondo come quelli di Shakespeare. Continuerò a provarci e continuerò a fallire. Ma, citando Beckett, spero di fallire sempre meglio."