NEOREALISMO E POSTNEOREALISMO

Nell’ultima pagina del mio saggio sul neorealismo (1956) auspicavo che la grande ventata rinnovatrice dei capolavori di Rossellini, Visconti, De Sica, che avevano squadernato “una inedita visione delle cose”, non si esaurisse in quegli anni e fosse invece la base culturale «di un rinascimento di là da venire». Auspicavo addirittura che dal neorealismo potesse articolarsi una nuova concezione del mondo, nientemeno che una filosofia. L’auspicio, si badi, non era del tutto campato in aria. Due anni dopo, infatti uscì un libro che sembrava un tentativo sistematico, proprio sul piano filosofico, della weltanshaung neorealista. Si trattava di Cinema e realtà, un saggio di Brunello Rondi, regista e intimo collaboratore di Federico Fellini, il quale – per l’appunto – nella prefazione al volume, faceva capire di condividerne la sostanza fino ad invitare il lettore a “rendere omaggio” a Rondi, cioé «a chi ha saputo far circolare dentro le sue pagine la forza drammatica e l’aria alta di un’epoca» (e prima Fellini aveva scritto: ”abbiamo sempre avuto – io e lui – problemi in comune, abbiamo tanto discusso, oltreché lavorato insieme, nella nostra amicizia”). E che diceva Rondi in questo saggio quasi considerato suo da Fellini?

Nel primo capitolo, “Il neorealismo come nuova idea dell’uomo”, si legge: «L’unico contrassegno – non sigillo né schema – del neorealismo, come origine, come tradizione già chiara e come possibile apertura coerente, è invece quello tipico dell’approfondirsi, dell’alimentarsi e dell’estendersi della nuova coscienza, che gli è base e spinta, lume e tessitura, e – come abbiamo detto tante volte – questo contrassegno s’incide come nuova idea dell’uomo, emergere d’una nuova prospettiva estetica, morale, etica, sociale e politica (…). E la conoscenza neorealista del mondo si configura in un capovolgimento di certa coscienza romantica e individualistica. Erompe, questa conoscenza neorealista, come un bisogno profondissimo dell’uomo per una sincerità con la quale radicarsi a un piano di reale partecipazione e approfondimento della vita nei termini storicistici».

Nonostante l’appoggio di Fellini, il tentativo di filosofeggiare una materia che si riteneva solo poetica e che Brunello Rondi avrebbe voluto portare a livello teorico se non teoretico, rimaneva appunto solo un tentativo e quindi senza conseguenze.

Il libro ebbe però il merito di sottolineare con forza le novità che il neorealismo aveva portato nella storia del linguaggio cinematografico. Novità rivoluzionarie che oggi gli storici non possono far a meno di registrare non solo nelle vicende del film italiano, ma anche in quelle mondiali. Significativa la constatazione, espressa recentemente, di Gian Piero Brunetta, uno dei più attrezzati storiografi del nostro Paese: «Una volta entrati nell’atmosfera della guerra fredda e del lungo trionfale potere democristiano successivo alle elezioni del 1948, il corpo neorealista – dopo una seconda fase di assestamento e di allargamento del proprio spazio – esplode e i suoi frammenti hanno una ricaduta su tutta la superficie del cinema internazionale. Non verranno mai meno i legami, che possiamo definire ombelicali, tra il modo di vedere e di narrare dei padri neorealisti e quello delle generazioni successive».

Purtroppo l’affermazione di Brunetta ha il difetto di accettare in parte un diffuso pregiudizio della critica cinematografica e non solo, secondo il quale il neorealismo a un certo punto si sarebbe esaurito fino a spegnersi e scomparire. Concetto nato nel ’60 ma ribadito nei cosiddetti anni del riflusso, cioè nel momento culturale e politico più oscurantista, quello che vede l’avvento del “decisionismo” di Craxi e che apre la strada alla micidiale presa del potere di Silvio Berlusconi. Era quello il periodo – subito dopo il ’68 – in cui si diffuse ad arte la moda di considerare il neorealismo come qualcosa di arcaico e sorpassato, un rimasuglio dell’ufficio stampa e propaganda del Partito Comunista Italiano, da liquidare e mettere in soffitta come il movimento partigiano e la Resistenza (più tardi la seconda rete della RAI, diretta da un craxiano di ferro, si rivelò attivissima in questa direzione con programmi in sostanza neofascisti, sia di fiction, tesi per es. a rivalutare il giovane Mussolini nonché le figure dei divi del regime Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (fucilati dai partigiani), sia di puro intervento politico, come i dibattiti condotti dal rampante Giuliano Ferrara). Politica culturale che si può collegare al vero e proprio “lancio” di uno storico del fascismo, revisionista in senso antimarxista - Renzo De Felice - attuato dalla spia statunitense Michael A. Ledeen con un volumetto edito da Laterza, Intervista sul fascismo (Bari, 1975). Forse involontariamente ma certo oggettivamente De Felice, con la sua susseguente massiccia bibliografia rivalutativa della dittatura mussoliniana, contribuì a creare la giusta indulgenza per favorire lo sdoganamento parlamentare del Movimento sociale, decisivo per l’affermazione dei governi di destra. La posizione di Brunetta è naturalmente ben lontana da tutto questo, anche se a mio avviso è contraddittoria e persino bizzarra.

Contraddittoria perché mentre da una parte cede alla moda antineorealista giudicando esaurito il movimento, dall’altra ne sottolinea la vitalità individuando sempiterni “legami ombelicali” tra i maestri della prima ora e tutto il cinema mondiale; bizzarra perché attribuisce o sembra attribuire questa diffusione “internazionale” del neorealismo ad una sua peregrina esplosione (dice proprio “esplode”) che lo ridurrebbe a pezzettini (“frammenti”) che a loro volta ricadrebbero misteriosamente a pioggia in varie cinematografie vivificandole. Ma andando anche a naso (storico) non si vede proprio quale evento epocale avrebbe prodotto una frammentazione tanto traumatica e tanto prolifica. La guerra fredda? Il potere democristiano? Siamo in presenza di fenomeni politici venti e anche trentennali, troppo striscianti e diluiti nel tempo per attribuirgli la responsabilità di improvvise deflagrazioni distruttive.

E ugualmente errata è la seguente affermazione di Brunetta (sempre influenzata, secondo la sua stessa ammissione, dai giudizi liquidatori del neorealismo): «L’esordio registico di Antonioni – come del resto quello di Fellini – appare alla critica come un ulteriore segno della diaspora, dispersione e decomposizione del corpo neorealista» (ibidem, pag. 192).

Ma come!, stanno per uscire dall’albero originario (dal “corpo”) due delle personalità più geniali del cinema mondiale, le cui origini, la cui cultura, le cui esperienze sono da loro stessi dichiarate strettamente collegate al neorealismo (vedi la prefazione di Fellini al libro di Rondi, vedi la sua strettissima collaborazione con Rossellini, di cui è stato persino attore e sceneggiatore) e non si sa per quale ragionamento perverso essi costituirebbero la spia di un cadavere culturale nauseabondo. Al contrario, le figure di Antonioni e Fellini, il cui “cordone ombelicale” con i maestri giustamente viene dichiarato indiscutibile – sebbene le loro figure si caratterizzino per autonomia e raggiungano esiti molto particolari – sono una delle conferme più forti di quanto la stagione neorealista sia stata fervida, produttiva, densa di sviluppi. Altro che figli di un cadavere! Per esempio non è possibile dimenticare quanto abbia contato in Antonioni la lezione viscontiana. L’operaio inquieto e aspirante al suicidio del Grido (1957) porta dentro di sé l’inquietudine e la rivolta morale del protagonista di Ossessione, mentre si aggira e ha incontri d’amore negli stessi paesaggi desolati e acquitrinosi della bassa padana. Così come l’inquadratura finale di Professione Reporter (1975), la facciata dello squallido alberguccio dove ancora giace il cadavere del giornalista, rievoca l’altrettanto squallida trattoria gestita dal Bragana nel primo film di Visconti. Certo, lo sviluppo del linguaggio di Antonioni e Fellini si articola diversamente, percorre strade inusitate rispetto a quelle dei maestri, ma non per questo antagonistiche. Fellini affina il discorso spiritualista di Rossellini, con cui non a caso aveva “riletto” i fioretti di San Francesco, si interroga con accenti alati e fantasiosi sui grandi misteri dell’amore della vecchiaia e della morte, come nella Dolce vita (1959) in Satiricon (1969), in Casanova (1976), autentici capolavori che scrutano il «difficile viaggio dell’uomo moderno all’interno di realtà in cui progressivamente vengono meno tutte le certezze, le fedi e le verità». Antonioni affronta percorsi diversi, rinuncia al fantastico e al favolistico optando per la compostezza gelida d’una visione nordica dell’esistenza, consapevole che questa non solo appare priva di valori, ma si presenta anche colma di ambiguità. Ed è in queste scelte contenutistico-stilistiche di fondo che Fellini e Antonioni si pongono su un piano “altro” (ma sempre non antagonistico) rispetto ai maestri. Mentre questi si rifanno alla lezione di Manzoni e Verga, Fellini e Antonioni si permettono di avvicinarsi, di recuperare Pirandello (Fellini anche Pascoli). Addirittura Professione reporter (1975), nell’affrontare il tema del protagonista che prende il posto di un morto, riecheggia chiaramente Il fu Mattia Pascal. Ma ciò non vuol dire che sia impossibile trovare in Antonioni agganci persino politico-tematici col neorealismo.

La feroce polemica contro la società neocapitalista e la difesa della eversione sessantottina non avrebbe potuto toccare la virulenza e la forza espressiva di Zabriskie Point (1970) se, appunto, non ci fosse questa filiazione. In realtà il neorealismo non ha subito nessuna esplosione e tanto meno diaspore. Si è modificato, si è sviluppato, si è trasformato, rimanendo ben vivo. Ha avuto eredi diretti ed eredi diversificati, in Italia come nella storia del cinema degli altri paesi. Le crisi politiche e produttive ricorrenti in casa nostra, con la marchiana sudditanza dell’ ordinamento legislativo al cinema statunitense, hanno certamente provocato alti e bassi nelle storia economica del film italiano. La famosa lettera intimidatoria e censoria di Andreotti a De Sica dopo Umberto D., fu di sicuro un episodio disgustoso e repressivo. Ma c’era persino da aspettarselo. In realtà si è trattato di vicende che non hanno inciso nel tessuto culturale al punto da suscitare esplosioni distruttive o vistosi cambiamenti di rotta. Si può tranquillamente affermare che il passaggio dal neorealismo al postneorealismo sia stato progressivo e persino naturale.

I CARATTERI SALIENTI DELLA RIVOLUZIONE NEOREALISTA

Quali sono le caratteristiche del linguaggio neorealista, così importanti e di fondo, da spingere Fellini a parlarne come “aria alta di un’epoca”?

Direi di fare prima di tutto una precisazione di fondo, prendendo le mosse dai fermenti culturali che portarono, col fascismo in agonia bellica, alla realizzazione di Ossessione (1942). Dietro questo film non c’era solo Visconti; c’era un gruppo di giovani che avevano fatto la fronda sulle pagine di Cinema, diretto nientemeno che da uno dei figli di Mussolini (lo stesso che firmò il soggetto del primo film di guerra di Roberto Rossellini). Gruppo in mezzo al quale si agitava il futuro regista “neo” Giuseppe De Santis. Ebbene, qual’era l’idea fissa di questo gruppo criptoeversivo? Di dare grande rilievo e importanza al linguaggio cinedocumentario. In una saggio acuto e stimolante lo sottolinea molto bene Ennery Taramelli, quando rileva che appunto in Cinema «gli articoli e le recensioni a documentari prodotti dall’Istituto Luce sono numerosi e costituiscono un vero e proprio vessillo di battaglia della “riscoperta e ricerca di un autentico stile cinematografico italiano” propugnato da De Santis sulla suggestione del Renoir di La bete humaine». Per De Santis il documentario rappresenta il «modello in vitro di un’estetica filmica pura» tant’è vero che scrive: «Noi crediamo che la parola documentario debba essere spogliata dal suo comune attributo scientifico per un più alto significato poetico, dove i termini di un contenuto essenziale siano uomo e natura». Sono affermazioni che sembrano echeggiare quelle di Flaherty e anche di Vertov.

Passano pochi anni e le opere di Rossellini, De Sica, Visconti – e anche di De Santis nel suo film più riuscito, Roma ore 11 (1951) – acquisiscono all’interno dei modi espressivi del cinema di finzione, la “purezza”, l’immediatezza, la verità del cinema documentario. Il miracolo, la novità del neorealismo sta proprio qui: nell’esser riuscito a fondere gli stilemi di Lumière e di Méliès. Sono precise scelte di linguaggio, quindi di regia. Vediamole una per una.

LA SCENOGRAFIA

È stato detto che l’abbandono dei teatri di posa da parte dei registi neorealisti venisse soprattutto dal fatto che Cinecittà era stata occupata da chi era rimasto senza casa, da sfollati, da contadini inurbati. È una favola sciocca da respingere. Roma città aperta è stata in parte girata in un teatro di posa rimediato alla bell’e meglio, ma sempre un teatro. È proprio il concetto di scenografia che viene rivoluzionato, dentro o fuori i teatri di posa fa lo stesso. Gianni Canova nella prefazione al volume di Giancarlo Basili lo spiega benissimo. Nel cinema di tutto il mondo lo scenografo, prima della rivoluzione neorealista, era insieme «architetto e designer, carpentiere e arredatore, progettista ed esecutore» e «disegnava luoghi che dovevano prendere il posto della realtà e funzionare come surrogati del mondo». Dopo l’avvento neorealista, « basato sul culto della scenografia naturale, sul rifiuto dell’artificio, sulla preferenza per le scene “dal vero” realizzate in set fatti con fette, spicchi o frammenti di mondo», lo scenografo è come se avesse cambiato professione: «da “illusionista scenotecnico” è diventato al contempo un tour operator e un talent scout ambientale». Si tratta di un cambiamento prospettico, l’adozione di una scenografia documentaristica, che ha influenzato a macchia d’olio ogni tipo di film, dal dopoguerra ad oggi. Prendiamo a caso l’episodio finale di Full metal Jacket; la regia di Kubrick sembra trasferirsi in una città vietnamita. Invece siamo in un teatro di posa inglese.

LA FOTOGRAFIA

Prima del neorealismo per quanto riguarda la fotografia tenevano cattedra due grandi direttori: lo statunitense Greg Toland e il messicano Gabriel Figueroa. Che dicono di loro le enciclopedie? “Il virtuosismo figurativo” del primo, “tutto basato su un gioco di chiaroscuri e di profondità di campo” lo porta ad essere “arditamente esemplare”. E l’arte di Figueroa, “la sua fotografia effettata”, “angosciosa e spietata, cupa e abbagliante” «si afferma a livello internazionale come il paradigma visivo di un Messico mitico e arcaico, incendiato dal sole e scolpito nei volti e nei gesti millenari dei suoi abitanti». Il neorealismo getta alle ortiche tutti i virtuosismi luministici, ogni gioco ad effetto, e sceglie una chiave si potrebbe dire caravaggesca, nel senso di un recupero della “camera oscura”, dello stabilire sacrosanta l’origine principale della luce, il rispetto della sua provenienza. Uomini e cose hanno una loro autenticità, una loro verità visiva che deve essere lasciata integra, persino aspra, antigraziosa, in modo da evidenziarne la purezza, la semplicità. Il sole non incendia, non scolpisce: semplicemente, illumina. Le cose diventano vere, reali, quando sono colpite dalla luce. Verità e luce sono la stessa cosa.

LA RECITAZIONE

Prima di Roma città aperta il cinema ha sempre fatto uso dell’attore in senso trascendente. Questi cioè veniva impiegato come mezzo per esprimere qualcosa che lo trascendeva: all’abilità non più scenica, come in teatro, ma confacentesi alle esigenze dello schermo, era affidato un sentimento, una carica che, suggerita dall’artista-regista, doveva come attraversare il volto e i gesti dell’attore per fermarsi nella fono-immagine, e da qui giungere al pubblico. L’attore era considerato sempre un ponte di passaggio, uno strumento mediatore che “interpretava” la parte affidatagli. Che poi è la funzione che l’attore svolge nel teatro. Con l’avvento del neorealismo l’attore non interpreta, non media; semplicemente, è. Non c’è più nulla a cui far da veicolo: la figura umana diventa una testimonianza, e prima ancora di esprimere, esiste. In che modo? Nei termini ad essa più consoni, e cioè esiste nel suo mondo reale, circondata dalle cose che fanno parte della sua esistenza, calata in un tempo preciso e quindi in una condizione sociale da cui è definita e che a sua volta definisce. Si pensi allo scugnizzo di Paisà (1946): mai il cinema, come dietro a questo attore preso dal vero, era riuscito a delineare con tratti così fondi la condizione di una città, in una situazione particolare. La rivoluzione apportata da questo nuovo modo di concepire l’attore fa sì che l’uomo non sia più sullo schermo uno strumento mediatore, ma il centro dell’attenzione. Per la prima volta nel cinema non documentario, il film fa un uso immanente dell’attore.

Tra il personaggio e la sua interpretazione non deve, non può esistere una scissione. Sono la stessa cosa, hanno la stessa valenza. Ed è così che la concezione del più grande teorico e maestro del teatro borghese, Costantin Stanislavskij, viene a coincidere con la pratica della recitazione neorealista. Brecht e il suo “straniamento”, l’aspetto razionale, politico, del recitare vengono allora buttate dalla finestra?

LA SCENEGGIATURA

No, lo straniamento brechtiano, che era un modo per tener sveglia l’intelligenza politica dello spettatore, il neorealismo lo fa rientrare dalla porta con le forme della sceneggiatura. Dove il personaggio, essendo immesso in un clima storico, non ha bisogno di essere dettagliato, caratterizzato, inzeppato di psicologismi, anzi, se interpreta il suo essere al mondo, conviene lasciarlo esistere con semplicità, con asciuttezza. Per cui il protagonista di un capolavoro del postneorealismo, Salvatore Giuliano (1950) di Francesco Rosi, sarà talmente essenzializzato da ridursi ad una figura, ad un costume. Alla fine il protagonista di Salvatore Giuliano è un impermeabile che si agita di spalle sui dossi di Montelepre. E non sono più elaborati e circostanziati i personaggi di Gillo Pontecorvo in La Battaglia di Algeri (1950) altra prova maestra della vitalità del movimento. Se il film è corale, se rappresenta un momento storico di una nazione, la centralità dei personaggi tende a sparire. Su questa strada chi scrive ha tentato di portare alle estreme conseguenze la rivoluzione neorealista dello sceneggiare e concepire i personaggi, addirittura abolendo il personaggio centrale. O meglio, sostituendolo con un fenomeno sociale. Nel Sasso in bocca (1970), in Faccia di spia (1975), il personaggio centrale è rispettivamente nel primo, la mafia, e nel secondo la Central Intelligence Agency (CIA). Era il tentativo di scarnificare al massimo la fiction per portarla al documentarismo totale, dove appunto i personaggi o non ci sono o sono ritagliati su uno sfondo reale. Ed ecco la necessità di utilizzare, anche se a spezzoni, il materiale di repertorio, di mescolarlo alla fiction, che a sua volta viene girata ad imitazione dello stile cinegiornalistico, come se fosse un documento vero, un’attualità. Pontecorvo si vantava di non aver montato nella Battaglia di Algeri un solo fotogramma di repertorio proprio perché sapeva quanto questo film si avvicini ad una pellicola basata tutta sui materiali d’archivio, come Allarmi siam fascisti e Morire a Madrid. In questa direzione, mostrando un fortissimo influsso neorealista, si pone anche Oliver Stone con J.F.K (1980) dove la fiction superdivistica di una stella di Hollywood (Kevin Costner) alternata a un materiale di repertorio inoppugnabilmente testimoniale (la ripresa di Zapruder dell’assassinio di John Kennedy) si trasforma nella requisitoria vera di un giudice statunitense vero con sorprendenti esiti documentaristici. I modi della sceneggiatura neorealista vanno ben oltre la struttura del personaggio, rinnovano dalle fondamenta le regole drammaturgiche. Come nasce il “testo” di Paisà? Ce lo spiega benissimo Massimo Mida: «La realtà della guerra era ancora presente e viva in tutto il paese e divenne l’ispirazione diretta del film. Sei mesi trascorsi su e giù per l’Italia (…), un lavoro che, sotto la guida estrosa di Rossellini, si snodava intenso e divagato insieme: la sceneggiatura nasceva di giorno in giorno, i dialoghi furono stesi scena per scena. E il copione si trasformava, si adattava alle impressioni che provavamo: una condizione umana, la storia di un uomo o di una donna, incontrati per caso, la lacrima e il sorriso di un bambino – in funzione magari di comparsa – colti al volo durante la lavorazione (…). L’ultimo episodio, quello dei partigiani sul Po, nacque inquadratura per inquadratura, ispirato direttamente dalle loro gesta, dalle varie storie che ci furono raccontate».

Ma non solo. La sceneggiatura neorealista se ne ride dei “tre atti” di Hollywood e di Hitchcock, la vicenda si può frantumare in storie minimali, procedere per ellissi, adeguarsi ad un vissuto che sembra svolgersi nel momento della ripresa e «la concatenazione di tipo causale è sostituita da quella ermeneutica narrativa: quest’ultima è la struttura fondamentale di un rapporto col mondo che non si preoccupa della sua razionalità nè aspira a una trascendenza, ma mira piuttosto a una concretezza solidamente umana».

IL SUONO

Visconti gira La terra trema (1948) in presa diretta. Ovviamente, verrebbe voglia di dire. Invece è una felice eccezione, perché il cinema italiano in quel momento non solo manca di adeguate attrezzature sonore (quelle esistenti sono vetuste e tutt’altro che leggere) ma manca anche di professionisti preparati. Per cui non sembrerà credibile ma Roma città aperta, Sciuscià e Ladri di bicicletta sono stati doppiati e sonorizzati in postproduzione. E anche Paisà soffre di una presa diretta non rigorosa dove per esempio il soffiare del vento (elemento sonoro costante, ossessivo, che caratterizza stupendamente l’ultimo episodio) risulta aggiunto al missaggio. Queste difficoltà pratiche non ci impediscono di rilevare che il neorealismo, anche nella tecnica della ripresa sonora, rinnova il linguaggio cinematografico. Nella Terra trema certi rumori ambientali o sociali assumono valenze espressive così alte da richiamare le conquiste della scuola documentaristica inglese: i richiami dei pescatori, il loro dialetto aspro come greco antico, i marosi che s’infrangono sugli scogli, i rintocchi plumbei delle campane, diventano la sostanza naturale inscindibile delle immagini. Così in Paisà la secca fucilata del primo episodio, che uccide il soldato USA proprio nel momento in cui s’è fatto capire dalla ritrosa ragazza siciliana, o nell’ultimo episodio lo sciabordio dell’acqua – lo scalpiccio rapido sulle dune dei partigiani in cerca di scampo – il pianto desolato di un bambino unico superstite dopo la strage – il crepitio implacabile della mitragliatrice tedesca – il tonfo tragico dei corpi gettati ancora in vita nell’acqua – scandiscono i momenti della narrazione come parte essenziale di una testimonianza.

Così il doppiaggio non deve sembrare doppiaggio ma anch’esso presa diretta. E i dialoghi vengono direttamente dal vivo di una condizione umana: «Con la stessa immediatezza del racconto affidato al flusso della parola, il cinema assegna alle vicende narrate sullo schermo la risonanza infinita di accordi e vibrazioni che la parola conferisce ai vissuti e alle esperienze più diverse che si saldano fra loro, ma anche si dilatano, si allargano come cerchi creati da un sasso gettato nell’acqua». La musica invece resta con le funzioni che aveva anche prima del neorealismo: un ampliamento sotterraneo e interiore del significato di fondo. Non si può dire che le partiture di Renzo Rossellini, fratello del regista e suo collaboratore fisso, siano ridondanti o pleonastiche. Anzi, sono asciutte, nervose, persino spoglie; certo funzionali al discorso complessivo. Ma il loro apporto non è innovativo. La musica di Cicognini per De Sica è anzi di una tradizionalità banaleggiante che dilata la già cospicua componente sentimentale. Visconti nella Terra trema sceglie un musicista più intellettuale, Willy Ferrero e collabora anche lui alla partitura; in Bellissima farà in modo che Franco Mannino componga la musica su temi dell’ “Elisir d’amore” di Donizetti, ma il registro sonoro continua ad essere vecchio stile. Forse i neorealisti avrebbero fatto meglio a seguire il concetto, questo sì davvero rivoluzionario, del teorico Siegfried Kracauer, che nel suo fondamentale saggio teorico Film: ritorno alla realtà fisica, sosteneva l’abolizione della musica? No, sarebbe stato un estremismo inutile e castrante. Le partiture del neorealismo seguono la tradizione perché l’innovazione di questo elemento espressivo non avrebbe accresciuto quello che più premeva: capire, afferrare, restituire la verità del mondo.

IL MONTAGGIO

E il montaggio è un po’ come la musica: se viene esaltato e ipercaratterizzato, rischia di stravolgere il discorso, di portarlo su binari espressionisti. Così come nella recitazione i neorealisti avevano adottato la linea stanislavskijana, che andava nella stessa direzione di rappresentare la vita così com’è, ugualmente nel montaggio restano insensibili alle scoperte di Eisenstein. Il montaggio dialettico sarebbe per loro uno stivaletto cinese che alla fine risulterebbe una coartazione, una scelta deformante. Il montaggio neorealista invece si adatta al racconto, non lo forza o lo limita. Le inquadrature possono essere lunghe, lunghissime, o corte, se la narrazione lo vuole. Vedi il piano quasi infinito del secondo episodio di Paisà con il dialogo o meglio l’incomprensione tra lo sciuscià napoletano e il soldato nero. Non è un piano sequenza, la camera sta fissa sui due senza esitazioni e senza tagli, perché è un frammento di vita eccezionale, perché l’uomo in divisa – l’invasore per di più alieno – si confronta con il campione assoluto – la vittima totale – della guerra. Alla fine si scoprirà che non sono così diversi, sono entrambi vittime e paria. Lo si scoprirà attraverso il rispetto, il pudore del montaggio per il racconto.

LO SPETTATORE E LA CATARSI NEOREALISTA

I capolavori del neorealismo, da Ladri di bicicletta alla Terra trema, a Paisà, a Umberto D., finiscono apparentemente senza soluzione. I pescatori di Acitrezza hanno preso coscienza della loro condizione di sfruttati, come potranno far “tremare la terra” davvero? Il pensionato tenta il suicidio, lo tenterà di nuovo, questa volta uccidendosi?

Il fatto è che il film neorealista è concepito come una continuità, che la parola fine non può né deve spezzare. È un blocco di realtà portato sullo schermo; quindi se venisse conchiuso si rischierebbe di tradirlo nel suo significato. La pellicola termina, ma resta ancora tanto da dire. Perché?

Perché il neorealismo ha tagliato la barriera tra arte e realtà: per questo il problema dibattuto sullo schermo continua ad esistere anche quando lo schermo si è spento.

L’opera d’arte vive cioè di due vite: una interna (che è quella estetica e quindi anche morale) e una esterna (che è quella morale e quindi anche estetica). Più forte sarà la carica interna, maggiore sarà la risonanza che se ne avrà all’esterno tra gli spettatori e non solo (infatti se l’opera fosse insignificante, o come direbbe un crociano “brutta”, non riuscirebbe a suscitare l’impegno dello spettatore con lo stesso stimolo dell’opera “bella”; per es. Roma città aperta e Achtung banditi! di Lizzani hanno gli stessi temi e provengono dalla stessa spinta etica, ma con che diversità di presa sullo spettatore!). Anche in chi vede i film sono presenti due possibilità di lettura: si può godere internamente la qualità estetica dell’opera, e si può riversarla esternamente in azione. Ossia, per fare un esempio banale, visto e compreso Roma città aperta, si dovrà condurre il nostro vivere civile sulla strada indicata dai resistenti. Naturalmente, se ricevessimo solo l’esteticità dell’opera, la vivremmo alla vecchia maniera, continuando a separare arte e realtà; se invece agiremo anche in conseguenza (spinti, attenzione, dal valore artistico dell’opera) saremo dei veri e propri spettatori neorealisti.

Perciò, riprendendo la questione se Umberto D. ha o non ha una soluzione, si dovrà concludere che, nella sua vita esterna, non ce l’ha, perché è la realtà stessa, espressa nel film, a non avere soluzione. Se La terra trema, come volevano alcuni, finisse con la scena di ‘Ntoni che si reca in una cellula comunista di Acitrezza a prendere felice la tessera, ciò sarebbe in primo luogo falso, perché come ha riferito Visconti ad Acitrezza allora non c’erano sedi di partito; poi propagandistico e quindi altrettanto falso, perché prospetterebbe una soluzione di gran lunga antiestetica (rovinando il film e la sua forza); e infine priva di valore universale, perché non tutti sarebbero convinti (come non lo sono) che di fronte all’ingiustizia di certe strutture sociali, l’unica soluzione possibile sarebbe iscriversi a questo o a quel partito Gli interrogativi sui finali dei film neorealisti, accusati spesso di pessimismo, vengono quindi a cadere (come per il finale di Miracolo a Milano, dove c’è chi crede che i barboni vadano in paradiso!). Siamo di fronte a conclusioni che non sono né ottimiste né pessimiste. Infatti i film neorealisti sono tutti negativi, ma nel senso che la realtà che contemplano, priva appunto di sbocchi, è tale; sono positivi, perché essi sollecitano una presa di coscienza catartica da parte dello spettatore.

LE TRE DIRETTRICI DEL POSTNEOREALISMO

Dopo un processo di rinnovamento così complesso e radicale, che è durato nella sua fase primordiale almeno fino a Umberto D. (1952) era persino ovvio che il cinema successivo, italiano e internazionale, ne risentisse largamente. La “nouvelle vague” francese manifesta persino troppo apertamente il suo debito verso il neorealismo, cominciando da Godard (per non dire del cinema veritè, così vicino a Zavattini, e della tecnica recitativa di Eric Rohmer). E via via l’influsso del cinema nuovo si spande, genericamente, un po’ in tutto il mondo e, con riferimenti precisi, a Cuba, in Brasile, in India (esempio clamoroso: Satajit Ray) in Giappone, negli USA attraverso Paddy Chayefsky, in Inghilterra prima con Karel Reisz, Tony Richardson, Lindsay Anderson (fondatori del Free cinema) e poi con tutta l’opera di Ken Loach. Così come molti richiami al neorealismo possono essere rinvenuti negli 11 episodi della stupenda saga tedesca Heimat (1984) e nei 13 di Heimat 2-Cronaca di una giovinezza (1992) di Edgar Reitz. Ed era anche naturale che il cinema italiano successivo ai primi anni cinquanta si sviluppasse con alle spalle questo straordinario evento espressivo, come sua forza e suo riferimento costituenti.

Tali influssi si sviluppano macroscopicamente su tre direttrici: la prima è quella che si collega in linea diretta al neorealismo e che potremmo chiamare del postneorealismo filiale (sono gli autori che si sono formati con la triade dei grandi registi o che a questi continuano a fare esplicito riferimento). Poggiando su un criterio generazionale si parte con i figli del neo, Rosi-Pontecorvo-Lizzani-Montaldo, continuando poi con i nipoti, tra cui i Taviani, De Seta, Petri, Scola, Olmi, il sottoscritto, per arrivare ai bisnipoti Giordana, Amelio (che si collega al neo persino in un titolo: Ladri di bambini, (1992), Placido, Scimeca, Chiesa ecc. La seconda direttrice fa invece riferimento ad un genere, la commedia all’italiana, che si qualifica storicamente come commedia postneorealista. Già presente negli autori minori del neorealismo dei primordi (Zampa, Castellani) prende slancio con Due soldi di speranza (1951) dello stesso Castellani e Pane amore fantasia (1953) di Comencini, appoggiandosi poi ai successi di Monicelli, Germi, Scola, Wertmuller, Magni, su su fino ai recenti Pieraccioni, Virzì e persino Troisi, Benigni, Verdone.

Terza direttrice, quella che potremmo chiamare del postneorealismo tangenziale, che vede l’affermazione di personalità autonome (abbiamo già accennato ad Antonioni e Fellini) che assumono posizioni diverse, originali, stilisticamente particolari e tuttavia ancora connesse al ceppo originario. È il caso di Pasolini, Bellocchio, Cavani, Moretti, Avati e ancora Scola (che come altri realizza film che si situano in tutte le direttrici). In questo ambito, ma a volte con vizi manieristici, si situano i registi che hanno scelto l’emigrazione culturale, il farsi adottare da Hollywood: Leone, Tornatore, Salvatores (quello di Nirvana, 1996) e il secondo Bertolucci (da Novecento in poi).

IL POSTNEOREALISMO DAI MAESTRI A MUCCINO

Sulla congerie di riflessioni, libri, filosofemi, e anche arzigogolature, dedicati al neorealismo esiste un massiccio e filologico volume di Giulia Fanara, Pensare il Neorealismo che se non altro testimonia quale fiume di considerazioni abbia provocato il cinema italiano del dopoguerra; fiume torrentizio che senza dubbio ne documenta l’importanza storica (sebbene non ce ne fosse bisogno e il saggio della Fanara resti confinato nell’ambito accademico-universitario). Purtroppo il falso convincimento che il neorealismo venisse a morire negli anni sessanta ha spesso sviato la ricerca storica finendo per sistemare il movimento in una sorta di nebulosa. Fernaldo Di Giammatteo è arrivato addirittura ad affermare che il neorealismo “ha finito per essere un ostacolo” al rinnovamento del cinema italiano. Ma come Brunetta non potendo negare l’evidenza e direi persino l’ovvietà del viceversa, subito dopo ha aggiunto contraddicendosi: «Sarà proprio la reazione (inconscia forse) di due dei maggiori esponenti della corrente che innescherà il rinnovamento e guiderà il cinema italiano fuori dalle secche del pauperismo. Da una parte Rossellini, che con Stromboli terra di Dio (1949) ha constatato la impossibilità di proseguire in quella direzione, e dall’altra Visconti, che con Bellissima(1951) si è accanito in una ovvia contestazione delle ‘illusioni’ generate dal mondo del cinema (…), finiranno per comprendere, all’unisono si vorrebbe dire, come la necessità di allargare l’orizzonte sia l’unico modo per salvare quel realismo al quale entrambi si dicono legati». Evviva. Purtroppo però l’abbandono del “pauperismo”, della denuncia della miseria, non era il toccasana o la bacchetta magica per rinnovarsi e tenere alta la qualità dei film successivi. Lo sanno bene De Sica e Zavattini che pur nella loro copiosa realizzazione di lungometraggi tutt’altro che “pauperistici”, a volte anche con capitale hollywoodiano, non toccheranno più le vette di Sciuscià, Ladri di biciclette o Umberto D. Lo sa anche Visconti, che dopo la bella prova di Senso (1954) non è più arrivato al capolavoro.

Bisogna dire invece che Rossellini ha sferrato, sul finire della carriera, almeno una bella zampata leonina: La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) definito nelle enciclopedie “sobrio capolavoro di ricostruzione storica e analisi critica”. E Zavattini, qualche anno prima di morire, ha firmato come regista e persino interprete di se stesso, uno straordinario provocatorio stimolante mediometraggio, La Veritaaa (1982), dove ha praticato la strada dell’apologo poetico e surreale. Insomma i grandi maestri, pur non raggiungendo i risultati altissimi degli ‘anni ruggenti’, non hanno deluso né tradito, continuando a svolgere – soprattutto Rossellini – un coerente discorso sicuramente connesso a quello iniziale.

Per concludere citiamo un episodio recente che conferma quanto il neorealismo resti nelle storia del nostro cinema come un punto di riferimento ancora vivo. Alla conferenza stampa di presentazione del suo ultimo film girato in USA con capitali statunitensi, La ricerca della felicità (2006), Gabriele Muccino ha dichiarato di aver convinto il protagonista Will Smith ad accettare il ruolo proposto dopo avergli fatto vedere Ladri di biciclette e Umberto D. e avergli assicurato che lo stile dell’opera avrebbe seguito la stessa strada.

Giuseppe Ferrara

Lezione tenuta a conclusione del corso LA REGIA E LA POETICA DEL NEOREALISMO (dicembre 2008) - Università di Perugia – Facoltà di SCIENZE DELLA FORMAZIONE (Terni)