VINCENZO CERAMI: SCRIVERE PER IL TEATRO

DIALOGO E MONOLOGO IN TEATRO

«L'universo del dialogo, di cui il Teatro è il cuore, ha una complessità e un'oscurità disarmanti, che inducono lo scrittore, nel momento in cui deve far parlare qualcuno, a regredire nella propria autobiografia, sia quella reale che quella mitizzata. Nelle pieghe drammaturgia-scrivere-per-il-teatro.htm della voce di un personaggio c'è, in «falsetto», la voce di chi scrive.

Per riuscire a dare verità alle parole di un personaggio che ci è molto distante bisognerebbe entrare profondamente in una personalità che non si trova in natura ma si muove come un fantasma dentro di noi. Nessun essere umano che compare in un libro, in un film o in una commedia, esiste nella realtà. A renderlo coerente e credibile sono le sintesi operate dallo scrittore. E queste sono possibili a condizione che l'autore sappia incarnare una figura che egli conosce fantasticamente, che sta già nel suo immaginario. [...]

Calarsi in qualcuno e farlo parlare vuol dire assumere, insieme al suo lessico, le sue ragioni e le sue contraddizioni; quanto di menzognero contengono le sue parole trova riscontro nelle incertezze e negli smarrimenti dello stesso scrittore. Le bugie hanno espressioni che vanno al di là del loro contenuto. In un addio pronunciato dal protagonista si nasconde, da qualche parte, un qualche sconosciuto addio dello scrittore. Nell'Idiota Dostoevskij rivive la sua terribile esperienza di condannato a morte attraverso le parole del principe Myskin.

Ciò che più parla nelle parole è il silenzio. E, come vedremo più avanti, in Teatro il silenzio viene raccontato attraverso il monologo. Osserviamo la nostra vita. Se ognuno di noi contasse il tempo in cui parla con gli altri nel corso di una giornata, si accorgerebbe che si tratta di minuti e non di ore. Supponiamo, con molta generosità, di concentrare in un ora il nostro «parlato» di un intero giorno, a disposizione del silenzio ce ne restano ventitré. Se otto le passiamo dormendo, per ben quindici ore non usiamo la parola.

Passiamo insomma il novanta per cento della nostra vita senza dire niente, chiusi in noi stessi. Ma quante cose succedono in quel silenzio. Quasi tutto. Agiamo, prendiamo decisioni, pensiamo. Ma facciamo anche cose di cui neanche ci accorgiamo. Per esempio custodiamo le paure, teniamo a freno l'ira, fantastichiamo, giudichiamo, ci lasciamo turbare, controlliamo le emozioni o le cerchiamo, siamo scontenti o contenti, rimuoviamo le angosce, metabolizziamo le cattive notizie, ci accettiamo, ci rifiutiamo eccetera. Dentro il silenzio diventiamo più bambini oppure ci confessiamo l'inconfessabile, ci rivolgiamo a Dio, non ci vergogniamo dei nostri impulsi, non siamo terrorizzati dai tabù, desideriamo ciò che gli altri ci vietano, ci vien voglia di uccidere, di fare all'amore, di scappare. [...]

Basta adesso con i massimi sistemi e torniamo ai «trucchi del mestiere». Butto giù il più brutto dialogo possibile (mi ispiro a un film che purtroppo ho visto) per indicare subito quello che non bisogna fare. Il film inizia così: un uomo e una donna stanno di fronte, al di qua e al di là di un tavolino. Lui: Tu non puoi parlarmi così Maria... io sono tuo marito da sei anni e lavoro dalla mattina alla sera alla Standa per un milione al mese! Lei: Invece ti parlo così, Giovanni, perché stiamo poco insieme visto che anch'io lavoro, ma all'Italsider... e poi ti dimentichi di nostra figlia Teresa... Lui: Ma lei va a scuola, fa la quinta elementare... ecc. E' evidente che i due personaggi stanno passando informazioni al pubblico. Sanno bene di essere marito e moglie, di chiamarsi Maria e Giovanni, di avere una figlia di nome Teresa che fa la quinta elementare e di lavorare uno alla Standa e l'altra all'Italsider: non hanno bisogno di dirselo. Non è un dialogo ma un a parte, o meglio: un a parte travestito da dialogo.

L'esempio mette a fuoco un problema che è sempre presente in un dialogo: chiarire e spiegare nel modo più invisibile. Tanto che possiamo considerare valida l'equazione: meno informazioni ci sono, tanto più il dialogo è efficace. L'autore della goffa lite dei coniugi ha fatto l'errore di mettere subito in conflitto due personaggi di cui lo spettatore non sa proprio nulla. E' una situazione identica all'esempio che ho fatto prima, dei due che litigano per strada. Non è certamente vietato cominciare un film con due persone che parlano, ma a condizione di non sovraccaricare il dialogo con l'extratesto (con quanto non fa parte del testo). Bisogna trovare il coraggio di rimandare a dopo le informazioni. Qui oltretutto si tratta di dati elementari (riguardanti la parentela fra i personaggi, il loro lavoro, l'età eccetera) che possono essere trasmessi a piccole dosi e in momenti diversi.

Molto più spesso lo scrittore ha necessità chiarificatrici ben più complesse, legate alle reticenze e alle bugie dei personaggi. Lo spettatore è in grado di capire tutto solo se è stato preventivamente fornito di un certo numero di informazioni. Vediamo allora in quali scene si corre di più il rischio di un dialogo strumentale. Continuo a esprimermi in termini cinematografici, ma il discorso si allarga anche agli altri linguaggi. In ogni film ci sono alcune scene «forti», in corrispondenza dei nuclei narrativi più importanti. Sono le scene madri. Ognuna di queste è preceduta da una serie di, chiamiamole così, scene figlie, che servono a prepararla. E perché la scena madre sia pienamente espressa (con zero informazioni), nelle scene figlie bisogna seminare alcuni indizi, sospetti, metonimie e piccole rivelazioni (informazioni al pubblico) che hanno una funzione narrativa. Queste scene corrono il rischio di rivelare smaccatamente il loro ruolo informativo, di servizio. Sempre per familiarizzare con il gergo di chi scrive, si dicono appunto telefonate le scene o le situazioni spudoratamente strumentali. Ad esempio tutte le volte che qualcuno toglie i bossoli a una pistola (in una scena figlia) l'arma finirà fatalmente nelle mani di qualcun altro che la crede carica (nella scena madre). [...]

La bravura di un «dialoghista» (in Francia è persona diversa dallo sceneggiatore) si misura soprattutto nel lavoro preparatorio di una scena dialogata. Affinché due personaggi possano parlare fra di loro, devono prima essere messi nella situazione di farlo. Vale a dire che bisogna in precedenza preparare bene il terreno, proprio come si fa quando si semina. Per comprendere che cosa sia un dialogo drammaturgico basta analizzare il suo opposto: il dialogo dottrinale.

Due chiacchiere tra Platone e Socrate verteranno sicuramente su problemi che li riguardano solo come rappresentanti del genere umano. Difficile immaginare che due personalità di quel calibro si intrattengano sulle corna dell'uno e l'ulcera dell'altro. In realtà sono due tinche che fanno parlare il loro pensiero, le loro filosofie e non le loro intimità. Non c'è bisogno che i due siano «messi in situazione», perché il lettore non sarà mai incuriosito dal loro rapporto personale, se ne sta lì a bearsi della loro intelligenza e degli alti contenuti dei discorsi. Ho detto «discorsi» non a caso, perché i dialoghi dottrinali non sono mai battibecchi («botta e risposta»), ma veri e propri brani articolati letterariamente. [...]

Tutto il Teatro cosiddetto scritto, concepito lontano dal palcoscenico e dove lo stile di scrittura è autoreferenziale (vive autonomamente rispetto ai personaggi), fa del pensiero e della letteratura il suo assunto principale. Basta pensare a Eliot, a Pasolini, ai dialoghi di Pavese. Ma occupiamoci del dialogo drammaturgico. Da quanto ho appena detto si intuisce che esso, al contrario degli scambi filosofici tra Socrate e Platone, racconta le anime, la loro singolarità, i loro silenzi. I personaggi hanno la responsabilità delle loro parole, non esprimono il pensiero dell'autore. La consuetudine scorrettissima di attribuire a uno scrittore frasi pronunciate da un suo personaggio ha provocato nei secoli clamorosi fraintendimenti. Non si può mettere in calce alla frase «Fate astinenza questa notte e vi sarà più facile la prossima» il nome di Shakespeare (che l'ha scritta) quando è Amleto che la pronuncia.

Prima di mettere uno di fronte all'altro due personaggi lo scrittore deve «preparare l'ambiente» (non intendo il luogo, ma la tensione, l'atmosfera). Se, per ipotesi, un insegnante chiedesse ai suoi studenti di abbozzare un dialogo tra due amici, bisognerebbe subito rispondere che è impossibile. E questo perché sul dialogo verrebbe a pesare la responsabilità di «raccontare un antefatto noto ai protagonisti». D'altra parte cosa possono dirsi di interessante due persone se non fanno riferimento a qualcosa che è successo e che li ha in qualche modo coinvolti? E di ciò che è avvenuto il lettore va informato se lo si vuole mettere in condizione di cogliere il senso di ciò che si dice. Gli studenti avrebbero troppo e niente da scrivere, andrebbero in barca, come si dice, cioè di qua e di là senza una meta precisa.

Ogni dialogo si riferisce più o meno direttamente a un contenzioso. Non basta: entrambi i personaggi debbono essere protagonisti di quel contenzioso, altrimenti uno ha la funzione di tinca, di qualcuno cioè che è solo tutt'orecchi. L'insegnante dovrebbe piuttosto assegnare quest'altro compito: «Dati due personaggi, impostate un antefatto in virtù del quale, una volta che i due sono uno di fronte all'altro, non c'è bisogno che parlino perché il lettore già sa cosa si direbbero». E' infatti questa la situazione ideale per scrivere un buon dialogo: il lettore sa cosa hanno da dirsi i due e lo scrittore, a questo punto, è libero di divagare a piacimento, di «prenderla alla larga», di far parlare apparentemente d'altro. Una madre scopre di nascosto che il figlio si droga. Il figlio sa che lei lo sa. Lei gli prepara la colazione e comincia a parlare. Sarebbe troppo semplice e banale, cane cane - gatto gatto (è una frase di gergo - dal significato intuibile - che indica la duplicazione di un dato già fornito, il ritorno pleonastico di un segnale), che gli dicesse subito: «Ho scoperto che ti droghi!». Il lettore è informato di tutto, anche che il ragazzo si è accorto di essere stato smascherato. Se parlano d'altro, se lei gli racconta, che so, una birichinata che ha fatto da ragazzina, il lettore si incuriosisce, si chiede quali sono le sue intenzioni, in che modo entrerà in argomento, e anche, contemporaneamente, se il ragazzo, prima o dopo, rivelerà di sapere che lei è al corrente del dramma.

I personaggi raccontano sé stessi, il loro modo «particolare» di essere al mondo. Un personaggio si può tratteggiare nella sua essenza ineffabile solo nell'incontro con gli altri, quando parla. In una situazione come questa il dialogo è totalmente libero, non ha informazioni da «far passare», ma solo emozioni. Uno scrittore, dicendo di meno (non informando), dice di più. La vita silenziosa dei personaggi emerge nelle titubanze, nelle insicurezze, nelle paure, perché in gioco ci sono temi quali la maternità, la solitudine, il senso di colpa, la speranza della salvezza eccetera. Tutta materia tratta dalla vastissima, segreta «enciclopedia del silenzio» che forma gran parte delle nostre vite. La «messa in situazione» dei personaggi risulta più facile quando è forte il loro contrasto, al di là dei caratteri. Se inquadriamo un padrone e un servo, la dinamica del loro rapporto si nutre di una forte extratestualità. E' di per sé una «situazione», basta far posare una mosca sul naso di uno dei due che già possono parlare. Lo stesso vale per un medico e il suo paziente, il re e il suo buffone, il cavaliere e il suo scudiero, il comico e la spalla, la guardia e il ladro eccetera.

Un'altra «situazione» è la decontestualizzazione: naufraghi su un'isola, gli incontri nella suburra di un re travestito, un barbone al ristorante, un diavolo in paradiso. Alcune scuole di teatro, specialmente in Francia, fanno un lavoro particolare e interessante con gli attori. Questi, durante le prove, passano lunghe ore a «ricercare» il proprio personaggio. Dopo averlo studiato attraverso una ricca documentazione, salgono sulla pedana e provano piano piano a farlo esistere. [...] Si chiamavano esercizi di fantasia corale. Era un lavoro che aiutava l'attore a «uscire da sé» per assumere i panni di qualcun altro. Un lavoro molto somigliante a quello dello scrittore. [...]

Vincenzo Cerami

Un testo teatrale non scritto «a tavolino» ma ideato sulla misura di una compagnia, tiene conto del fatto che un dato attore e una data attrice possono «raccontare» molte cose con la loro vis, con la loro immagine, con il talento. E' un teatro immediatamente finalizzato alla rappresentazione, il cui copione è una prima stesura o addirittura un canovaccio. Molière, Goldoni, Shakespeare, Pirandello, De Filippo hanno scritto per e sugli attori. Rossini ritoccava continuamente le sue opere e cambiava le arie a seconda dei cantanti. Il copione scritto alla fine delle prove con gli attori ha il dono di essere sperimentato, verificato sul palcoscenico. Ma se viene «letto» a freddo, da un estraneo, non svela subito la sua efficacia. [...]

Mettiamo a fuoco, adesso, le differenze tra dialogo teatrale e dialogo cinematografico. Intanto cerchiamo di capire quali sono le convenzioni principali del linguaggio teatrale. Il palcoscenico è tridimensionale, composto di tre pareti. E nel caso di uno spazio chiuso la quarta parete, quella che deve alzarsi davanti al pubblico, è ideale, non c'è. Le proporzioni dei luoghi evocati sono anch'esse ideali: una campagna è troppo piccola, un salotto è troppo grande. Dentro quelle tre pareti infatti il pubblico accetta di «vedere» sia una prateria ampia fino all'orizzonte, sia la botteguccia di un calzolaio. La platea inizia a pochi metri dal palcoscenico e finisce a notevole distanza. Non può né avvicinarsi né allontanarsi dai personaggi (come invece avviene nel cinema, nella letteratura e alla radio). Il piano è sempre un totale. Gli attori non possono urlare per farsi sentire dagli spettatori delle ultime file (risulterebbero stonati per quelli delle prime) né possono esprimersi a fior di labbra. Debbono ignorare la presenza del pubblico e nello stesso tempo recitare il più possibile a suo favore (con la faccia rivolta alla platea). Data inoltre la dimensione dello spazio, per rendere visibili i loro gesti essi devono ampliarli in maniera ostentata. Si stringeranno la mano tenendosi a una certa distanza e sottolineando bene il movimento. Se un personaggio deve risultare pallido, vista la lontananza dal pubblico e l'intensità delle luci, l'attore ha bisogno d'imbiancarsi esageratamente il volto.

Negli ultimi anni, grazie alla tecnologia - che permette di nascondere un piccolo microfono tra i capelli o negli abiti degli attori - il linguaggio del Teatro ha trovato la possibilità di utilizzare meglio il bisbiglio, la parola che si ferma sulle labbra, il suono del fiato e dei sospiri. In Italia questa tecnica è stata perfettamente utilizzata da Carmelo Bene. Certo si tratta di un Teatro particolare, che può rinunciare impunemente alla perdita delle profondità foniche, visto che la fonte sonora è una soltanto, quella degli altoparlanti diretti verso la platea. La distanza dell'attore dal proscenio non viene più segnalata dalla lontananza della voce, e un eventuale abbassamento del volume sonoro non indica una distanza dal proscenio ma un calo di voce. Il senso della distanza può essere offerto solo dalla vicinanza o meno della voce al microfono. Ma poiché questo è fisso, attaccato al bavero, l'effetto non si può ottenere. La sorgente sonora (gli altoparlanti) è bloccata in un punto distante dalla bocca dell'attore che si muove sul palcoscenico. Non solo, ma è impossibile alternare la voce naturale con quella «microfonata» perché sono di materia molto diversa e inconciliabili. Tuttavia l'uso del microfono nel teatro di prosa fa sentire il pubblico più vicino ai personaggi. Ma siccome i testi scritti fino a oggi hanno una impostazione retorica basata sulla voce naturale, la scelta del microfono comporta fatalmente uno stravolgimento dei segni.

Per questo un drammaturgo contemporaneo ha bisogno di sapere in partenza se la sua pièce sarà recitata con l'amplificazione. La scenografia, in Teatro, è un'evocazione smaccatamente incredibile: una piazza disegnata su un telone, un cavallo di cartapesta, nuvole appese, giardini invisibili, una casa ridotta a una semplice sedia eccetera. Nessun altro linguaggio è altrettanto «innaturale». Cose e persone sono sproporzionate, gli spazi una pura invenzione. E' logico che anche il «parlato», in tanto cartone, sia di cartone: un po' «gonfio», talvolta stentoreo, compiaciuto, architettonico. E quando è basso è enfaticamente basso.

Il dialogo teatrale è in sintonia con queste convenzioni così estreme. Il drammaturgo deve essere capace di scrivere una battuta che risulti urlata senza che l'attore sia costretto a urlarla. Lo stesso vale per un dialogo sussurrato: gli spettatori dell'ultima fila non debbono perdere nemmeno un apostrofo. Certamente la tecnica di recitazione aiuta a ottenere questi risultati, ma il tono della voce è implicito nella battuta. Per esempio un a parte, per quanto recitato a voce alta, sembrerà sempre bisbigliato. E gli a parte hanno uno stile estraneo a quello del dialogo: è ammiccante, complice, sfacciato. [...]

Il gioco di appoggi retorici o enfatici e di rimandi allusivi presente nel dialogo è teso con sapienza a «raccontare indirettamente» i personaggi e i loro rapporti interpersonali. Un regista, prima di prendere qualsiasi iniziativa, deve «entrare in contatto» con questa parte invisibile, eppure narrativamente operante del testo. Poniamoci ora una questione. Se nascondiamo un registratore sotto il tavolino di un bar, trascriviamo i discorsi di tre amici e poi li mettiamo in scena recitati da tre attori così come sono stati pronunciati, è teatro questo o no? Si potrebbe rispondere: «Dipende da quello che si son detti!». Questo è pur vero, ma ciò che rende difficilmente «teatrabile» quel dialogo a tre è il contesto, il fatto che manca la platea, il pubblico dell'ultima fila. I tre hanno chiacchierato sapendo che nessuno li ascoltava, senza alcuna «teatralità». Quelle battute infatti, se recitate in teatro, cioè ad alta voce da attori, cambiano di segno: i tre personaggi darebbero l'impressione di litigare piuttosto che parlare e comunque ogni frase avrebbe un'enfasi ridicola. Se vogliamo, invece, restituire quella conversazione come si è svolta, bisogna riscriverla tutta secondo le convenzioni del teatro. Il vero si può riprodurre solo con il falso.

Quando si apre il sipario su una qualsiasi scenografia non c'è spettatore che non si accorga del cartone, delle luci artificiali, dell'inverosimiglianza della scena. Entra un attore, in costume, che là dentro si muove con naturalezza. Poi entra un secondo attore che dà una cattiva notizia all'altro, il quale sobbalza. Pochi momenti, insomma, e davanti agli occhi del pubblico tutto «s'invera»: quella realtà di cartone diventa il simulacro di una realtà possibile e coerente. Lo scrittore di teatro lavora su questo piano, e azioni e parole (salvo che per una precisa scelta poetica) non devono mai rompere l'incantesimo. Anche perché su quell'incantesimo egli imposta la drammaturgia. [...]

In Teatro il dialogo è di gran lunga più presente delle azioni, parte delle quali, spesso, avviene fuori scena. La ragione è facilmente intuibile: da un lato c'è una oggettiva difficoltà a renderle teatralmente credibili e dall'altro, in un contesto linguistico così fortemente evocativo, il racconto d'un fatto accaduto fuori scena ha una «teatralità» (e quindi una verità) ancora più efficace.

La drammaturgia si conforma a queste caratteristiche e cerca di «far passare» attraverso le parole recitate tutto quanto nel cinema e nella narrativa è materia di background, di flashback e di passaggi di tempo. Non è un caso che il Teatro tenda naturalmente alle unità di luogo (un ambiente per ogni atto), anche se è del tutto lecito inventare situazioni complicate, bizzarre e insolite. Teoricamente sul palcoscenico, date le possibili stilizzazioni degli ambienti, è legittima anche una storia con mille sfondi diversi. Di fatto nella maggior parte dei testi teatrali pubblicati il numero degli ambienti si conta sulle dita di una sola mano.

Anche in Teatro esiste il problema delle tinche e delle informazioni al pubblico. Ma all'interno del «parlato» teatrale, così abbondante e complesso, le informazioni si possono nascondere molto meglio. Basta ad esempio chiosarle con lunghe e acute divagazioni. [...]

Una vicenda, in Teatro, non sfugge a un destino che la vuole trasformare in paradigma. Ogni storia, cioè, diventa (anche se è raffinatissima e profonda) variazione «esemplare» su un tema (raffinatissimo e profondo). Lo stesso modo di parlare dei personaggi, sempre tendente all'alto, è costruito con una sintassi particolare: prosa e poesia possono convivere nello stesso testo e il passaggio da una all'altra avviene con armonia, senza alterazioni di stile. [...]

In un romanzo lo scrittore ha la possibilità di «far pensare» il personaggio e di descriverlo nelle reazioni agli stimoli che gli vengono dall'esterno. Anzi, descrizioni e pensieri formano gran parte della sostanza narrativa. Nel cinema un primo piano racconta molte cose: l'espressione degli occhi di un attore può smentire una battuta, rivelare una bugia, un sentimento controverso o un rapimento dello spirito. Nel Teatro questo è impossibile. La descrizione di un sentimento, di uno stato d'animo viene demandata esclusivamente alla parola recitata.

Un dialogo teatrale deve esplicitare ciò che negli altri linguaggi è l'implicito, il segreto, il non detto. La parola teatrale non può non contenere anche i ragionamenti, gli arzigogoli della nostra mente. E' necessario quindi stabilire subito, fin dalla prima frase dell'opera, un codice retorico che contempli la possibilità attraverso il parlato di esprimere anche il pensiero. Da qui le divagazioni interne alle battute, le chiose; da qui il tono alto. [...]

Guardiamo ora come le battute si legano fra loro (enchaînement) e soprattutto qual è il meccanismo con cui vengono suggeriti i rapporti profondi tra i personaggi. [...] Se andassimo avanti con il dialogo potremmo tracciare un invisibile filo rosso capace di narrare il tipo di rapporto che lega i due personaggi. Tale filo rosso si ottiene trovando (o creando), in ogni battuta, il punto in cui si appoggerà la replica. Un dialogo risulta scorrevole solo a questa condizione.

Chi parla lega il suo argomento alla battuta appena ascoltata, altrimenti ci sarebbe un dialogo fatto a blocchetti, una successione di piccoli monologhi vagamente agganciati uno all'altro. [...] Alcuni raffinati dialoghisti (un nome su tutti: Marivaux) vanno a pescare i punti d'appoggio un po' più lontano, ottenendo così un dialogo fortemente ironico e allusivo, dove i personaggi parlano quasi per sottintesi, come se entrambi avessero coscienza della propria retorica e la usassero con arguzia. Colui che replica va a «pizzicare» quel punto del discorso che più torna utile alla sua risposta. Il lettore, dopo un po', ha l'impressione che i due parlino quasi in codice e che invece di dirsi le cose che si dicono si stiano vicendevolmente lanciando messaggi occulti.

Tutti i bravi attori hanno in testa una parola chiave, ne sono quasi ossessionati: intenzione. Quando studiano le battute del loro personaggio si chiedono giustamente «quale intenzione abbia quella particolare frase»: non ciò che vuol dire, ma ciò che non dice. Essi si rendono conto che ogni battuta cambia di senso a seconda di come viene recitata. In realtà il loro lavoro ha una istintiva natura drammaturgica: essi cercano, più o meno inconsapevolmente, i punti d'appoggio sui quali lo scrittore ha tirato il filo di tutto il dialogo. Una volta messo a fuoco questo filo, il dialogo acquisterà improvvisamente senso compiuto e l'attore avrà anche scoperto insieme l'intenzionalità della battuta e il carattere del personaggio. [...]

Un dialogo si può definire tale sono quando sono una di fronte all'altra due verità che, in quanto tali, si equivalgono. L'ideale è infatti un dialogo in cui lo spettatore dà ragione al primo che parla e vede in difficoltà colui che si prepara a rispondere. Poi però, non appena quest'ultimo replica, la verità passa dalla sua parte. E via di seguito. In questo modo lo spettatore partecipa creativamente al dialogo, viene continuamente chiamato in causa. Diversamente, se un personaggio ha tutte le ragioni e l'altro tutti i torti, lo spettatore si schiera con «il buono» e non si muove da lì: invece di partecipare allo scontro lo subisce, presenzia a una noiosa, «tincosa» lezioncina. [...]

Ho già accennato alla funzione del monologo teatrale. Vale la pena soffermarsi ancora su questo tema. Nella maggior parte dei casi il monologo segna il momento drammaturgico del pre-finale; esso coincide con la risoluzione del conflitto: il protagonista, di colpo, «capisce tutto», inquadra il proprio destino (o quello di altri). A questo punto si stabilisce la parità d'informazioni tra protagonista e pubblico in sala. Il monologo classico, di basso profilo, è quello della cosiddetta spiega finale dei gialli. Trovato il colpevole, giunge il momento della confessione o della rivelazione dei fatti da parte del detective, o del flashback in cui si sciolgono tutti i nodi. Ma è un errore ritenere che una tale figura drammaturgica appartenga solo al genere poliziesco. La resa dei conti, che quasi sempre si accompagna a un monologo, appartiene alla maggior parte delle narrazioni.

Cos'altro è un monologo se non un pensiero? Il poliziotto che spiega le modalità di un delitto mette in ordine una serie di indizi per arrivare a una verità indiscutibile, capace di «inchiodare» i colpevoli. Il pensiero dà senso ai fatti, i quali, fino al momento in cui la mente non si esprime, si sono svolti secondo una logica misteriosa. Il pensiero riesce a incatenare i diversi momenti della vicenda perché sa andare a fondo, sa, appunto, leggere nel silenzio, intuire le oscure motivazioni che stanno dietro a tante nostre azioni. Non sempre il monologo è monopolio del protagonista. Anche un antagonista è portatore di una verità che a un certo punto può «spiattellare» con tutte le sue contraddizioni. Egli, però, al contrario del protagonista che «parla» solo verso il finale o alle soglie di un importante risvolto della vicenda, rivela il suo pensiero in qualsiasi momento (ma sempre prima del protagonista).

Il pensiero è fondamentale in letteratura. Non esiste praticamente racconto o romanzo che non descriva quanto succede nella mente dei personaggi. In teatro invece bisogna ricorrere al monologo, un momento topico della drammaturgia. Nel monologo retorica e tono di voce hanno un altro stile giacché è come un «parlare a sé stessi», con un «accoramento» e una «sincerità» che mai fino a quel momento il parlante ha avuto modo di tirar fuori. In teatro, poi, è più che mai lecito (appartiene alla convenzione) far esprimere un pensiero ad alta voce, faccia al pubblico. Mai può succedere che un altro personaggio, magari nascosto dietro un divano, ascolti un monologo. E questo perché il monologo viene recepito dal pubblico come pensiero muto, quindi «inascoltabile» dagli altri personaggi. E se questi sono presenti al pensoso monologare del protagonista, si astrarranno o si metteranno in disparte. Nessuno degli attori potrà mai dire a un altro: «Ho sentito Mario che diceva a sé stesso di essere un cretino!». Il silenzio trova nei monologhi teatrali una via d'uscita «ufficiale», e mentre emerge a segmenti e a frammenti nei dialoghi, qui prende tutta la scena e si racconta.»

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