CARMELO RIFICI

INTERVISTA AL REGISTA E DIRETTORE ARTISTICO DI LUGANOINSCENA

Carmelo Rifici

"Maestro, facili Cassandre evocano da sempre la morte del Teatro... come immagina il futuro del Teatro"

"Immaginare il futuro del Teatro, qualunque esso sia, è quasi impossibile. Un'ipotesi potrebbe essere quella di un ritorno ad un Teatro ricentrato sulla figura dell’attore, un Teatro più povero di mezzi, ma più umano. Questo ritorno comporta una responsabilità maggiore dell’attore stesso. Ultimamente, a parte qualche notevole eccezione, noto che la crisi economica ha reso ancora più fragile un ruolo già di per sé poco strutturato.

Il Teatro è soggetto a morte o a trasformazione come qualunque altra cosa, ma il bisogno innato dell’uomo di raccontarsi e, attraverso forme artistiche, di lasciare traccia di sé, non può morire. Nell’immediato futuro penso ci sarà bisogno di un ritorno all’ordine, siamo tutti stanchi di vedere sui palcoscenici qualunque cosa, fatta in qualunque modo. Mi auguro che un ritorno all’ordine non significhi un ritorno al vecchio, al convenzionale, ma una ritrovata consapevolezza del ruolo dell’artista nella società: un artista che si occupi di contenuto e non di forma, dove la commistione tra le diverse discipline artistiche produca senso e non tendenza o moda. Una cosa è certa, il Teatro rispecchia l’inquietudine dei tempi, troverà anche in futuro il suo modo per rispecchiarla."

"Cos'è per Lei il Teatro?"

"Il Teatro per me è uno strumento di conoscenza, uno strumento di indagine della società attraverso il testo, la drammaturgia e la varie connessioni che si possono creare tra la parola e la realtà che essa evoca. E’ uno strumento per capire il presente, recuperare il passato (fin dove è possibile) e fare qualche piccola ipotesi sul futuro. Il Teatro però è anche uno spazio in cui si compie un rito, che ha delle regole che se bene usate aprono strani canali. E’ il luogo del sogno e del mistero. E’ lo spazio dove l’uomo può dare concretezza al proprio bisogno di mistero. In ultimo, il Teatro è stato e resta una microcomunità, fatta di affetti, relazioni, legami e inevitabili separazioni"

"Quale consiglio darebbe ad un giovane attore o attrice?"

"Il problema dell’attore oggi è la sua facile sostituzione. I giovani attori si assomigliano troppo, sono tutti molto carini, superficialmente preparati, molto generosi, ma poco profondi. Io consiglio loro uno studio più rigoroso delle proprie potenzialità, per distinguersi, per essere più pericolosi. Su un piano tecnico noto che i giovani attori non sanno usare il respiro, non sanno dove respirare e quanto respiro devono prendere tra una parola e l’altra, questo li rende fragili e piccoli. Equivocano facilmente la forza nervosa con l’energia e hanno poca consapevolezza del loro corpo: lo sfruttano come se fosse uno strumento slegato da loro stessi. “Stare” nel proprio corpo significa recuperare respiro, dinamica e tempo. Gli attori tendono alla velocità non al tempo, sono frastornati dal doppiaggio cinematografico, dalla cattiva televisione, hanno i tempi dell’intrattenimento, pensano che il testo sia una chiacchierata intorno al comportamento dei personaggi, non un agglomerato di parole, punteggiatura e spazi bianchi da penetrare, da esplorare con sensibilità, cultura, curiosità verso ciò che non conoscono. Spesso noto che i loro riferimenti li trovano negli attori del cinema americano, che sono lontani mille miglia dalla nostra cultura. Il problema nasce dalla mancata eredità, i nostri predecessori sono stati e restano dei grandi riferimenti, ma sono stati avari nel regalare qualcosa di loro alle nuove generazioni. Il lavoro dei giovani è estremamente più duro, devono inventarsi una identità perché nessuno ha lasciato loro la giusta eredità"

"Attraversiamo un momento di profondissima crisi sociale prima ancora che politica ed economica...quali a Suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?"

"Paradossalmente pur facendo Teatro, provengo da studi economici. Ho fatto le scuole in Svizzera, dove le materie economiche erano enormemente più importanti di quelle umane, quindi mi sono fatto una personale idea della crisi. Le cause della crisi, a mio parere, vanno ricercate nella progressiva perdita del linguaggio analitico. La crisi economica in atto è solo la punta dell’iceberg. Il sistema capitalistico e la globalizzazione hanno modificato malamente il linguaggio, creando un problema di connessione fra la parola e il pensiero. Se il prodotto deve essere venduto, deve essere capito dalla maggioranza della gente... questa cultura del pop... dove tutti devono accedere al prodotto, impone una massificazione delle lingua e l’eliminazione delle trappole e degli equivoci linguistici che rendono complesso il pensiero. La lingua del mercato ha minato il linguaggio analitico. Dobbiamo recuperarlo se vogliamo uscire da questo tunnel di superficialità in cui siamo entrati. La lingua parlata resta la più importante conquista dell’uomo; deve preservarla, rinnovarla, approfondirla. L’uomo deve tornare a pensarsi come un essere complesso, capace di desideri profondi e alti, difficili da conquistare. Il mercato ha inventato una lingua che fa paura, la paura imprigiona la coscienza, e limita la sua capacità espressiva. Il desiderio di sopravvivenza dell’uomo, che è un desiderio primario, diventa così l’unico auspicabile"