Intervista al docente di Storia del teatro presso l'Università Cattolica di Brescia

Claudio Bernardi

INTERVISTA A CLAUDIO BERNARDI


1) Prof. Bernardi, facili Cassandre evocano da sempre la morte del Teatro... come immagina il futuro del Teatro?

"Morte del teatro? Ma quale morte?
A giudicare dall’impressionante diffusione del teatro a tutti i livelli si direbbe che mai come oggi il teatro risulta essere la chiave di volta di qualsiasi organismo sociale e politico. Se, infatti, prendo il teatro professionistico vedo che perfino in paesi piccoli troviamo teatri con associazioni culturali, cooperative, piccole compagnie che gestiscono stagioni teatrali, festival, eventi. Quale città media non ha un proprio teatro “comunale”? Provate a fare una fotografia dell’Italia degli anni 70 e fate la stessa cosa oggi e vedrete quanti teatri, auditorium, sale di comunità sono stati aperti, riaperti, costruiti, inaugurati, riattivati. La stessa cosa vale per i professionisti del settore. Il loro numero è andato crescendo in modo esponenziale. Controllate e contate quante sono le scuole, i corsi e i laboratori di teatro in Italia, tutti millantando un sicuro sbocco professionale. Come nel calcio, in realtà, su 400 che partono arrivano alla meta solo 4. Il che mette a fuoco perfettamente la questione teatrale oggi. Il teatro serve sempre di più (è cercato) per la vita quotidiana, per la vita personale, sociale, politica e collettiva. La vita per l’arte è superata dall’arte della vita. Non si spiegherebbe, altrimenti, l’attrazione quasi di massa verso le arti performative. L’avvento dei social media ha accentuato ancor di più il fenomeno, per il banale motivo che per apparire devo per forza o per amore “performare” qualcosa. Anche nell’ambito formativo ed educativo, riabilitativo e terapeutico si assiste al proliferare di tecniche e drammaturgie teatrali che vanno dai giochi di ruolo, allo storytelling, dalla drammaterapia alle psicoterapie a mediazione teatrale, dalla creazione di eventi al teatro sociale.

Penso che chi parla di morte del teatro, in realtà, intenda dire che è morto il primato del teatro nel campo dello spettacolo e della rappresentazione. Il teatro non è più in prima pagina. Non conta più come una volta. A livello culturale, e anche nello stesso ambito dello spettacolo, ha un ruolo marginale. Senz’altro non conta molto a livello internazionale, ma neppure nazionale e nella stessa grande città, salvo eccezioni (come la prima alla Scala di Milano per la festa di S. Ambrogio). Il teatro (quello civico, alto, d’arte) sembra fatto per pochi intimi. In realtà, se conta poco in alto il teatro oggi conta molto in basso. Siccome sempre più gente fa o vuole fare teatro sempre più gente (lo dimostrano i dati SIAE – che pure escludono tanti manifestazioni teatrali dal vivo prive di sbigliettamento) va a teatro. Insomma, quanto più il teatro va alla gente tanto più la gente va a teatro. Sperando però che il teatro capisca che il teatro più mortale (sonnolento o soporifero) è quello delle poltroncine rosse (maledettamente strette, scomode e impraticabili) e che quello più vivace è il teatro di situazione, interazione, partecipazione, fuori dalla caverna della scena frontale. L’esempio più provocante, in merito, mi pare Floating piers di Christo, camminare sulle acque del Lago d’Iseo."

2) Qual è, a Suo avviso, il male principale del Teatro italiano contemporaneo?

"Il teatro italiano ha lo stesso male degli italiani in generale. Il romanziere Paolo Volponi, in Corporale, definiva gli italiani “un popolo schifoso di invidiosi”. L’invidia crea un circolo vizioso e dannoso, in quanto tende ad amplificare l’ego e il narcisismo degli artisti e degli operatori teatrali, i quali si credono chissà chi e considerano tutto quello che fanno “straordinario”. Disprezzano gli altri colleghi; se brillano più di loro ne parlano male, più ancora li boicottano, costituendo cricche di amici, giri, ghetti e relazioni autogratificanti e impermeabili. Il famoso “particulare” di Guicciardini non è inteso come tutto quello che pragmaticamente uno riesce a fare o realizzare nello stato in cui si trova, ma viene degradato al mero interesse personale, locale o corporativo. Trovare due o più teatranti che progettano, immaginano, pensano, discutono, realizzano politiche del teatro e dello spettacolo condivise, lungimiranti, generative è una rarità. Il risultato disastroso di tanto egotismo, corporativismo e localismo è che tutta l’eccellenza e il ben di Dio che a livello teatrale l’Italia ha creato e crea non trova piena e adeguata valorizzazione, promozione, diffusione, e genera uno scandaloso spreco di risorse e fondi, per non parlare del bello che latita nelle stagioni teatrali. Occupandosi ognuno virtuosamente del proprio orticello si ha quindi che l’Italia offre sì bellissimi orti, ville e giardini teatrali, ma il territorio etico ed estetico del paese è devastato, inquinato, deturpato. Un solo esempio. Considerando il teatro come diagnosi e cura della polis, non riesco a capacitarmi del fragoroso silenzio del teatro italiano sul principale mal d’Italia: la corruzione. Che la famosa capitale morale d’Italia, Milano, quando era (ma sarebbe ancora) la capitale del teatro italiano non abbia sputato o spifferato una parola, un gesto, un urlo sul marcio non di Danimarca ma della Bell’Italia “ancor m’offende” perché mi ha svilito il teatro a gemella, meretrice e serva della politica spartitica (“questo a te, questo a me, perepeppepé!”)"

3) Qual è la Sua personale e poco accademica definizione di Teatro?

"Il teatro è l’arte dei corpi. Come la musica è l’arte dei suoni, così il teatro è l’arte dei corpi. Prendo questa definizione dal grande storico del teatro Mario Apollonio, tra i fondatori del Piccolo Teatro nel 1947 e autore del vero manifesto programmatico del Piccolo, manifesto subito disatteso da Strehler e Grassi per cui Apollonio si dimise l’anno successivo. La rottura fu causata dalla diversa impostazione della funzione e delle finalità del teatro (pubblico e non). Grassi e Strehler avevano una concezione illuministica del teatro: il popolo, ignorante e immerso nelle tenebre, deve andare a teatro per essere illuminato sui mali del mondo. Il suo ruolo è di spettatore. Pubblico. Passivo. Il processo culturale-artistico-politico è di tipo discendente. Dall’alto (l’arte) verso il popolo (il basso). Obiettivo: creare coscienza critica ed etica. Il disastro umanitario della seconda guerra mondiale (non solo lo sterminio di ebrei e “diversi” di vario genere, ma anche la bomba atomica, il totalitarismo e il fascismo) aveva portato però Apollonio a individuare proprio nel pubblico passivo e nella soggezione dei cittadini e delle masse popolari il problema della crisi etica dell’Europa e dell’Italia. Un teatro “illuministico”, ottimo, profondo, di altissima arte c’era già, c’era già stato, ma evidentemente non aveva funzionato o era stato inutile. Apollonio individuava nell’assenza del coro la causa dell’inefficacia etica della scena. Per cui il teatro nuovo, il teatro pubblico, il teatro politico doveva essere un teatro del coro, della comunità, della partecipazione. Il circolo virtuoso del teatro d’arte doveva vivere della stretta relazione e interrelazione tra coro, drammaturgo e attore. Un processo circolare, dinamico, “democratico”, proattivo, in cui la “diagnosi” della parola di verità che si incarna sulla scena risponde alle domande dell’assemblea civica per spronarla alla cura e all’edificazione della polis. La città, il popolo, la collettività non è pensata come agglomerato, massa, folla indistinta, ma come articolazione complessa, come corpo sociale, organismo di unità di membra vive, parti, apparati, funzioni, specificità, unità di diversità, come è un coro, appunto.

Ma ritorno alla definizione del teatro come arte dei corpi. Il corpo ce l’hanno tutti e l’arte teatrale la apprendono tutti, imitando i comportamenti altrui, recitando il proprio personaggio o ruolo: totus mundus agit histrionem. Se non fosse così non ci spiegheremmo come riescono a diventare attori professionisti persone che non hanno accademie alle spalle e viceversa come siano negati per la scena persone che sono invecchiate nei corsi di formazione teatrale. Proprio il fatto che il teatro è l’arte dei corpi spiega la sua diffusione e la sua pervasività in tutti gli ambiti della vita pubblica. Ma quello che maggiormente interessa è che questa concezione riporta la questione estetica al suo significato originario di esperienza legata a tutti i sensi e non solo alla vista. Il viaggio estetico nel proprio corpo e in relazione agli altri e all’altro spalanca imprevedibili e inesplorati orizzonti e potenzialità al teatro che ha sempre più difficoltà a stare nella definizione dell’uno che guarda uno che agisce.

Il teatro nasce in Grecia non per incontrare l’altro, ma per capire, attraverso una rappresentazione, la realtà (quindi come teoria, che ha la stessa etimologia di teatro: théaomai), come diagnosi: se vedo, se so, se capisco allora so come bisogna agire. Per arrivare alla supremazia della rappresentazione sull’azione (perché il loro problema – ma anche il nostro - era la violenza, perché l’uomo scanna l’altro uomo anche quello che non gli ha fatto niente), ovvero il logos domina l’eros (magari!), il teatro intervenne sul rito (dionisiaco), composto dal trinomio dire, fare, mostrare, togliendo il fare reale, passando dall’azione alla rappresentazione, separando la collettività nei pochi che agiscono tramite dei personaggi e nei molti che guardano, controllando al massimo le emozioni per favorire l’illuminazione della mente. I greci hanno inventato così il più potente mezzo estetico che sia mai stato creato dall’uomo per cogliere, capire, in sintesi di tempo spazio azione gesti e parole, il bello e il brutto dell’umanità. Non esiste altro mezzo così potente e forte come il teatro non tanto per la forza della rappresentazione (il cinema, ad esempio, è più forte), ma per la forza della copresenza, dal vivo, insieme, nel processo (non partecipativo, ma intellettivo, teorico appunto) all’umanità. Il teatro è il massimo strumento diagnostico delle problematiche umane. Il teatro però, nel Novecento, a fronte del nuovo sistema di spettacolo prima cinematografico, poi televisivo e oggi mediatico (in cui lo spectare, lo spettacolo, e il voyeurismo dominano il mondo per cui è proprio lo sguardo il nostro problema, sguardo venduto, sguardo inquinato, sguardo morto, sguardo offensivo, critico, malevolo, disturbato, miope, morboso…) ha fatto di tutto e sta facendo di tutto per togliere la separazione tra platea e scena, per coinvolgere il pubblico, fino a trasformare il pubblico in coro, in attore, in partecipante. Il teatro si è spostato insomma dalla rappresentazione all’azione, al coinvolgimento, al rito, al performativo. La radice di teatro che interessa allora sempre più è la radice di dramma e drammatico, drao, agisco, e actor, attore.
L’importanza (la necessità anzi) del teatro sta meno nella sua forza di rappresentazione e più sulla sua forza di azione. E questa forza discende dai corpi, dal lavoro più che sulla vita, nella vita e con la vita di tutti."

4) Quali sono le realtà, gli autori e/o gli interpreti che considera più promettenti del panorama teatrale italiano?

"Tutte le mie promesse di un tempo sono diventate realtà notevoli del panorama teatrale italiano. Delle nuove leve ho poca dimestichezza e non mi avventuro in segnalazioni immotivate. Però come attore, drammaturgo e regista trovo molto interessante il bresciano Luca Micheletti. La compagnia teatrale invece che sembra puntare molto in alto è quella napoletana di Punta Corsara. Tra le attrici, anche se già famosa tra gli addetti ai lavori, ma che ha un potenziale di crescita stupefacente, direi Arianna Scolmegna, dell’Atir di Milano."

5) Come è nata la Sua passione per il Teatro?

"4 anni. Il teatrino dell’asilo delle suore. Ero vestito da cinesino, cappello a cono largo con codino. Entravo con una valigia di cartone piena di vecchie cravatte, cantando “Cin cin sono un cinesin, vendo clavattin”. Slanciando il braccio, si aprì la valigia e tutta la mercanzia volò sul palco. La mia performance fece ridere la suggeritrice che era dietro le quinte: suor Enrica. Romana, bella in carne, stretta dalla gorgiera bianca, la suora si stava scompisciando dal ridere. Era proprio piegata in due e aveva la faccia paonazza. Al che mi misi a fare ancor di più il cretino portando pure la platea al riso irrefrenabile. Bè, quando vedi che una smorfia, un gesto, una parola, uno sguardo è capace di immobilizzare o scatenare come fosse un sol corpo e una sola anima un gruppo di persone, allora la passione per questa magia psicofisica, comica o drammatica che sia, non ti passa più…"

6) Se dovesse scegliere un altro mestiere all'interno del mondo teatrale, quale sceglierebbe?

"Soubrette."