Intervista al docente di Storia del Teatro presso l'Università di Pavia

INTERVISTA A FABRIZIO FIASCHINI
1) Prof. Fiaschini, facili Cassandre evocano da sempre la morte del Teatro... come immagina il futuro del Teatro?
"Le morti annunciate, e puntualmente smentite, del teatro sono cosa nota. A mio parere, tuttavia, la questione non si può liquidare tanto rapidamente, evocando per l’appunto la vuota retorica di ‘facili Cassandre’. Da un certo punto di vista, infatti, è vero che la storia del teatro sia stata periodicamente segnata da clamorosi decessi. Nel corso del Novecento se ne possono contare almeno tre: all’inizio del secolo, nel secondo dopoguerra e a cavallo del nuovo millennio. In tutti questi periodi il teatro, per lo meno nella sua veste esteriore più nota e diffusa (spettacolare, verrebbe da dire), perde realmente significato e muore. Ma si tratta di una morte necessaria e profondamente voluta, che matura in seno al teatro stesso per favorire il suo rinnovamento. Non è quindi sbagliato parlare di morte del teatro, purché la si intenda come condizione ineludibile della sua rinascita. In questo senso va anche sfatato un altro mito sulla ‘morte del teatro’: quello che ne attribuisce la causa all’avvento dei nuovi linguaggi della comunicazione (il cinema ai primi del Novecento, la televisione negli anni Cinquanta e i new media negli anni Novanta). Certo, i profondi mutamenti del sistema comunicativo e informativo avvenuti nel secolo scorso hanno senz’altro destabilizzato gli assetti del teatro, soprattutto per quanto riguarda le logiche produttive e di mercato, ma non sono stati affatto la ragione della sua morte: quella, come dicevo, è frutto di un processo tutto interno di rigenerazione. Scegliere di sacrificare e azzerare l’identità di un teatro noto e conosciuto, ma di fatto mortifero, per ritrovare il volto di un teatro sconosciuto (o solo dimenticato), ma vivo. Questo è stato (ed è anche oggi) il punto. Imboccare la via stretta della morte per ritornare in vita. Anzi, giocando un po’ con le parole (ma senza forzarle), per ritornare ‘alla vita’. Perché la via della morte del teatro è sempre stata in realtà una via verso la vita, verso un teatro che uscisse dalle trappole della falsità e dell’esteriorità, per ritrovare le sue condizioni di verità, ossia la sua capacità di restituire nell’azione l’autenticità della vita, in intima relazione con l’uomo e la comunità umana. Questo vale per il passato, per il presente e per il futuro, per cui, se mi si chiede quale sia la mia immagine del teatro del futuro non posso che suggerire di guardare indietro, ritrovando ogni volta il valore del teatro proprio nei suoi continui processi di morte e rinascita, perché, come diceva peraltro Grotowski, ogni rivelazione (a teatro e non solo) non è mai scoprire «qualcosa di nuovo, ma qualcosa di dimenticato», di perduto e ritrovato."
2) Qual è, a Suo avviso, il male principale del Teatro italiano contemporaneo?
"Non userei il termine ‘male’ e neppure metterei la questione su un piano manicheo (il male e il bene del teatro). La realtà infatti è più complessa. Come dicevo prima, ci troviamo oggi in uno di quei momenti molto fecondi della storia del teatro (e più in generale delle arti e della cultura) in cui la percezione della crisi complessiva di un intero modello (diciamo pure per comodità il ‘male’ del teatro) convive intimamente con istanze profonde di rinnovamento (il ‘bene’ del teatro), senza poter tracciare delle linee nette di distinzione. Mi spiego meglio con alcuni esempi. Da anni ormai tutte le categorie formali che fino alla fine degli anni Ottanta distinguevano (anche in termini valoriali) le pratiche teatrali sono saltate, per cui oggi non ha più molto senso parlare di teatro di ricerca o di innovazione, come pure di intrattenimento o di tradizione. Tutto sembra dunque naufragare in una zona anarchica e spesso caotica di forme creative irrelate. Tuttavia è proprio da questa zona grigia e indistinta che, con sempre maggiore frequenza, sono emerse le proposte artistiche contemporanee più autentiche e stimolanti, segnate non a caso dalla vitalità di una dimensione performativa che, per l’appunto, trova nel grado zero delle distinzioni di genere e nell’intersezione dei linguaggi la sua intensità comunicativa ed estetica. Allo stesso modo, se da un lato, ormai da anni, il teatro soffre una crisi evidente di pubblico (non così drastica come talvolta viene dipinta, ma comunque indiscutibile), dall’altro si assiste ad una crescita esponenziale di persone (soprattutto giovani) che praticano il teatro, sia a livello amatoriale che professionistico, con il proliferare di scuole e compagnie più o meno riconosciute. Anche in questo caso dunque il problema del pubblico (il ‘male’ del teatro) coesiste e interagisce con una diffusa presenza sociale della teatralità (il ‘bene’ del teatro), per cui è evidente che ci troviamo dentro un processo complesso e articolato di cambiamento, ossia di morte e di rinnovamento dei modelli di produzione e fruizione dei linguaggi teatrali. Infine, in questa prospettiva, è altrettanto indicativo il fatto che, in questi ultimi anni, i confini fra estetica ed etica del teatro siano di nuovo diventati molto sottili e permeabili, con continue ibridazioni fra la dimensione artistica e sociale delle pratiche performative. Sempre più spesso, e da più parti, viene infatti ribadita l’importanza delle intersezioni fra arte e vita, per una teatralità che possa di nuovo essere espressione di processi creativi solidali di partecipazione comunitaria, volti a favorire il cambiamento delle relazioni interpersonali e sociali. Una visione che sembra ricondurre di nuovo il teatro alla sua vocazione originaria di strumento di ‘profanazione’ (per utilizzare un concetto caro al filosofo Giorgio Agamben), ossia di restituzione all’uso (e al gioco simbolico) di quel patrimonio di relazioni e di beni comuni che la società neoliberista contemporanea ha separato e sottratto alla condivisione, costruendo continue soglie (visibili e invisibili) di sacralizzazione, ossia di alienazione dell’uomo da se stesso e dalla realtà."
3) Qual è la Sua personale e poco accademica definizione di Teatro?
"Non credo sia necessario coniare definizioni originali. Ce ne sono già di bellissime. Ne scelgo una di Tadeusz Kantor, a cui sono molto legato: «il teatro è il luogo che svela, come un guado segreto nel fiume, le tracce di un passaggio dall’altra riva alla nostra vita»."
4) Quali sono le realtà, gli autori e/o gli interpreti che considera più promettenti del panorama teatrale italiano?
"Parlare di promesse e di giovani non è facile, a partire dalla stessa definizione dei limiti anagrafici: nonostante il recente sviluppo di bandi e iniziative (pubbliche e private) volte a promuovere le nuove creatività ‘under 35’, in Italia si tende purtroppo ancora a considerare ‘giovani’ molti artisti che hanno varcato la soglia dei quarant’anni. D’altra parte, è anche vero che estremizzare troppo il criterio anagrafico alla fine è un errore, perché la maturazione di un’artista si sviluppa nell’arco dei tempi lunghi della ricerca e troppo spesso, oggi, alle cosiddette ‘nuove generazioni’ non si danno il tempo e le risorse per crescere, per cui, in assenza di un sostegno nella continuità, molte promesse vengono bruciate nel giro di pochi anni. Si tratta dunque da una parte di valorizzare il ricambio generazionale, ma nello stesso tempo di creare le condizioni per garantire la lunga durata dei processi creativi più interessanti. Detto questo le nuove energie non mancano, soprattutto in quella zona ibrida e liminale di ricerca segnata dall’apparente assenza di modelli prestabiliti e di forme estetiche consolidate, da cui sono scaturite le proposte più innovative di questi ultimi anni, che non hanno paura di innescare cortocircuiti fra drammaturgia e performance, fra teatro di parola e azione fisica, fra formalizzazione estetica e un rinnovato impegno civile e militante."
5) Come è nata la Sua passione per il Teatro?
"In un certo senso direi che la mia fascinazione per il teatro è nata e si è alimentata sempre fuori dal teatro, o meglio, fuori dai confini del teatro ufficiale ma dentro le sue forme più autentiche e originarie, su tutte, per quanto mi riguarda, il gioco. È nel piacere puro e sincero del gioco, nel corpo che si illumina e crea, attraversando continuamente nuovi mondi e nuovi personaggi, che sono cresciuto e mi sono formato (a livello umano prima che professionale) ed è li che, a mio parere, si percepisce meglio la forza trasformativa e rigenerativa della teatralità. Perché il gioco è il modo più semplice e autentico che abbiamo per avvicinarci al mistero della vita, per incontrare e conoscere gli altri, facendo del ‘come se’, ossia della finzione, la via per lambire la verità, per avvicinarci a quella interiorità che i poeti medievali chiamavano il ‘lago’, la ‘secretissima camera’ del cuore."
6) Se dovesse scegliere un altro mestiere all'interno del mondo teatrale, quale sceglierebbe?
"Senz’altro l’attore, non tanto per velleità artistiche, ma, rifacendomi a quanto detto poco sopra, per cercare di ritrovare ogni volta nell’azione la memoria corporea di quel piacere intimo e stupefacente che da bambino provavo nell’entrare nel mondo possibile del gioco."