MAMADOU DIOUME

INTERVISTA ALL'ATTORE E REGISTA SENEGALESE

Mamadou Dioume

Qual è la Sua definizione di Teatro? Cos'è per Lei il Teatro?

"Il Teatro parla della vita senza che essa venga descritta perché non si può descrivere. La parola definizione non va per me, non si può definire una cosa del genere, questa parola racchiude tutte le forme di espressione, come la danza, l’architettura, la pittura, il canto, tutto. E' una forma di espressione, definirla è difficile, porterebbe a ridurla mentre racchiude una cosa infinita.

Cechov nel Gabbiano fa dire ad uno dei personaggi, Kostja - figlio di una grande attrice che viveva nei cliché - che non si deve illustrare e descrivere ma attingere a qualcosa di indefinibile: l’essenza. Cechov stesso afferma che i suoi personaggi non sono nati dalla sua intelligenza, né da idee preconcette, né dal caso ma risultano dall’osservazione del movimento della vita. Tutti questi personaggi sono nel suo cervello, egli porta in sé un universo.

Quando salgo sul palcoscenico come attore sto raccontando una storia che non è la mia verità, per questo la parola definizione mi fa paura, significa mettere immediatamente in discussione delle cose - anche se nel Teatro si mettono in discussione delle cose; esso ci porta a farci delle domande dopo aver attraversato un’opera che non è la mia verità ma una verità che può arricchirmi. Lì attingo qualcosa, che è molto più importante e profondo e che non si definisce; nei meandri dell’essere umano tutto ciò che si muove non possiamo definirlo.

Senza cadere in una definizione posso però aggiungere che il Teatro è un rito - visto che deriva dai riti - l’origine è lì. Jung dice: «se potessimo nutrirci di miti, potremmo toccare tanta vita»."

Lei porta con sé la ricchezza della cultura africana in un arte storicamente europea, occidentale. Quanto c’è della sua cultura di provenienza nel Teatro e che futuro c’è per il Teatro dalle culture non occidentali?

"Non direi cultura occidentale, sono prima e soprattutto una persona, siamo tutti sullo stesso pianeta. E' il movimento della vita che devo studiare, osservare, nutrirmene, sentirmi collegato, ovunque mi trovo sulla Terra ma andando al di là. La cultura non sappiamo cos’è. Io parto sempre dalle tradizioni: quegli usi e costumi sono dei riti, se li prendo per me vado verso un culto. Teatralizzando cerco di portare qualcun altro a rivolgersi verso cose che sono esistite e tuttavia sono ancora importanti perché fanno di noi ciò che siamo.

Il Teatro non è europeo, è di essenza popolare. Molière ci parla del quotidiano - Arpagone nell’Avaro, la cupidigia non è europea. L'amore non è europeo. La cultura e il Teatro appartengono a tutti quanti; queste forme si trovano anche in Africa, pensiamo al koteba. L’Europa non ha influenzato l'Africa, la culla dell’umanità.

In Senegal abbiamo un motto: vi sono due pilastri, il radicamento e l'apertura. In cosa mi radico? Sono nato qui, come un terreno fertilizzato. Cosa mi fertilizza? Usi, costumi, tradizioni non sono cose apparenti, devono rimandare all’essenza delle cose. Il Teatro permette questo: questa è la realtà, questa la fantasia, solcando qui - diceva Shakespeare - vi porto verso la meraviglia. Nessuno può spiegare cosa intendeva, tramite le parole egli cerca di fare altre cose; come si dice in inglese “beyond the words”, al di là delle parole."

Non posso non chiederle di Peter Brook.. qual è la più grande lezione che le ha lasciato?

"Prima di lui, la stessa l'ho avuta nel mio paese da professori occidentali. Robert Fontaine a noi tutti, ragazzi e ragazze, diceva: “farò di voi degli uomini”. Noi non capivamo cosa volesse dire - pensavo alla crescita negli anni - ma era qualcosa di molto più ampio. Tutto cominciò li, con lui. Poi, il secondo regista al Teatro Nazionale di Dakar, scavò più in profondità; poi altri che ho incontrato. Quando Brook si è spostato da Parigi a Dakar è venuto a cercarmi.

Con lui una persona deve raccontare qualcosa, qualcosa che sia semplice, dentro il quale non esiste il personale. Ciò vuol dire che porto qualcosa che non è la mia verità, tuttavia quella cosa lì mi nutre, mi parla, parla agli altri. Non è una cosa personale, ognuno potrà farsene un parere.

Quando si lavora, si lavora per poter progredire intellettualmente, umanamente, etc. La cosa più forte che mi ha dato dopo 8 anni - questa è personale - è la generosità… mai rimanere sulle cose, andare oltre; è una sfida semplice. La gente non ha più appigli, non sappiamo più chi siamo, cosa siamo e dove siamo; dentro di noi è un caos. Con Brook si è in un centro di creazione perché lui non insegna, lui vede qualcosa, percepisce ma non dirà mai ad un attore: “tu devi fare questo o quello”, anzi ferma la persona per riportarla su ciò che deve guardare e raccontare. Lui dice sempre: “dobbiamo avere i piedi sulla terra” perché abbiamo tanti sogni e innalzarci è un lavoro, il lavoro su sé stessi. Dentro il lavoro con lui poi c’è sempre la musica, i grandi maestri - Mozart, Schubert, Vivaldi, Verdi - e ogni nota provoca qualcosa nella struttura interna."

Che consigli darebbe ad un giovane attore o una giovane attrice?

"Io non consiglierei, suggerirei, come i grandi maestri - Grotowski, Brook e, risalendo nel tempo, Stanislavski e così via - soprattutto di sapere che ognuno di noi ha qualcosa dentro di sé. Cosa porti? I dubbi, le interferenze, tutto è possibile, ma se credi e hai qualcosa che ti sostiene - direi una fede, senza collegare questo termine alla religione - potrai andare a creare te stesso."