Intervista al regista, drammaturgo e docente di recitazione e drammaturgia

Roberto Cavosi

INTERVISTA A ROBERTO CAVOSI


1) Prof. Cavosi, cos’è per Lei il Teatro?

"Il Teatro è una liturgia laica, un “oggetto” sociale, una messa politica. Il fruitore deve essere un tutt’uno col palcoscenico, deve ogni volta, attraverso la scena, scoprirsi agli altri. Il Teatro senza questi presupposti non è tale, è altro, può essere un fatto commerciale, un fatto d’intrattenimento, un fatto di esercizio, ma non è teatro. Non è sufficiente che delle persone stiano sul palcoscenico ed altre in platea, moltissimi stanno in macchina ma non fanno Formula uno, molti si picchiano ma non saliranno mai su un vero “Ring”, altri fanno delle diete ma non sono un popolo sottonutrito del Terzo Mondo. Il Teatro è un luogo squisitamente sociale, d’aggregazione, come la messa. Il filo che ci lega agli altri in teatro fa parte del gioco, il gioco che si instaura tra uomo e uomo: attore-spettatore, evento scenico - pubblico e viceversa. Uomini che cercano sé stessi, che si confrontano attraverso la testimonianza di un accadimento che ogni sera nasce ritualmente per la prima volta. Andare a teatro non è mai un gesto superficiale, disattento, leggero o consueto. E’ semmai un atto di volontà: come diceva Piscator “andare a teatro non è come bere un bicchiere di grappa”, è piuttosto un atto di vita, come combattere o partorire. Andare a teatro è un atto attivo. Andare a teatro è cavalcare il proprio tempo."

2) Quale pensa possa essere la funzione del Teatro nella società attuale?

"Io credo che il Teatro debba, per guardare al futuro, adoperarsi affinché il nostro mondo possa essere ritualmente e poeticamente raccontato sul palcoscenico in un atto di forte impatto politico e sociale, di deflagrazione di sentimenti. Tutta la cultura occidentale è nata dall'invocazione rituale ad un dio: "Cantami o Diva...", e si è collettivizzata in quell'insieme straordinario di generi che era la Tragedia Greca, dove la realtà, l'attualità, entravano prepotentemente in scena catturando il pubblico in una magnifica "messa laica". Il teatro probabilmente ha bisogno di essere riscritto per creare una rappresentazione completa e complessa che risponda al bisogno singolo di ricerca della verità ed a quello collettivo di ritualità. Il nostro è un mondo violento e solo uno spettacolo che non deluda queste aspettative può essere di reale utilità sociale. Uno degli scopi del Teatro è di combattere la violenza, è nato per questo nell'antichità ed è risorto con lo stesso intento nel medioevo. Non credo che occorra più far Teatro se non si pensa a questo."

3) Qual è, a Suo avviso, il male principale del Teatro contemporaneo?

"Se si parla del nostro Paese è sicuramente la mancanza d’ideali forti, la necessità di essere al servizio della società. La continua imposizione del “Chi” a discapito del “Cosa”. L’apoteosi ossessiva del “Chi”, a qualsiasi livello e per i più svariati motivi (politici, di cassetta, narcisistici, o anche per banale superficialità..), ha troppe volte appiattito, avvilito e danneggiato il nostro Teatro."

4) Come descriverebbe l’essenza e la diversità dello scrivere per il Teatro?

"È una domanda complessa alla quale mi è più facile rispondere pensando al mio teatro. Il mio punto di partenza è sempre un archetipo o un mito col quale entro in una specie di dialogo personale per riproporlo “rivisto e corretto”. Partire da un archetipo credo sia fondamentale perché anche se questo non fosse più apparentemente riconoscibile comunque “lavorerebbe” junghianamente nella coscienza dello spettatore creando così quell’empatia fondamentale tra palcoscenico e platea. Questa è l’essenza fondamentale. Da un punto di vista “fisico” invece ogni volta che affronto un testo drammatico mi sembra di scalare una montagna. Io ho fatto molto sport in gioventù, sono dell’Alto Adige e sono salito sulla cima di molte montagne. E’ una dimensione che ora però non mi manca proprio perché affronto ogni testo esattamente come se piantassi ramponi e piccozza nel ghiaccio. Con la commedia il discorso cambia. Una commedia è una partita a ping-pong, con tanto di schemi e “battute”…"

5) Con Teatrogiornale, Lei si è fatto artefice di un originalissimo esperimento di drammatizzazione radiofonica del quotidiano, anzi, dei quotidiani. Ce ne parli.

"Il 3 luglio 2000, negli studi radiofonici di Radio3 cominciò l'avventura di "Teatrogiornale". In realtà nemmeno io, quando ideai il "format", avevo ben chiara la sua definizione. Cos'è in realtà "Teatrogiornale": Informazione? Teatro? Fiction? Fantasia? Realtà? Forse nessuna e al tempo stesso tutte queste cose. In "Teatrogiornale", infatti, vengono alternate ad arte una notizia del giorno e una fiction\pièce teatrale estemporanea (di circa 15\20 minuti) che rimanda alla notizia stessa. La notizia viene letta da uno speaker come fosse l'annunciatore di un GR, in contrapposizione alla parte drammatizzata, dove i colori dei sentimenti cercano il più possibile di emergere. Il percorso di ogni puntata di "Teatrogiornale" si consuma in una sola giornata: la mattina viene scritto il testo, il pomeriggio è dedicato alle prove con gli attori, la sera alle 20 viene recitato in diretta. Un'avventura, una vera avventura affascinante e coinvolgente, dove la propria sincerità umana e professionale viene messa ogni giorno alla prova, dove la velocità d'esecuzione ti obbliga alla spontaneità, alla pennellata impressionista, al lampo.

Lo scopo di "Teatrogiornale" è quello di permettere all'ascoltatore un confronto con la realtà attraverso strumenti d'indagine insoliti per un approfondimento così ravvicinato. Usare cioè il teatro come cartina tornasole del presente, anzi di un "superpresente" fresco di giornata. Un pensiero costante che avevo mentre progettavo il programma era di riuscire a trasformare la cronaca in metafora, in parabola. Il problema era riuscire a strutturare la parte drammatica senza che questa diventasse solo una semplice drammatizzazione del fatto raccontato ma fosse una sua interpretazione artistica “subliminale”. A questo scopo in “Teatrogiornale” sono stati usati molti canoni estetici: dal dramma alla commedia, dal cabaret al “cinema”, dalla farsa alla tragicommedia. In una puntata si poteva piangere nella successiva ridere, senza una logica prestabilita ma lasciando emergere l’attualità, giorno per giorno, nelle sue più varie e imprevedibili “manifestazioni”: non fu, per esempio, una tipica grottesca commedia all’italiana la vicenda parlamentare dei “pianisti”? Come non è stata una vera e propria tragedia la vicenda “Englaro”, dove si contrapponevano ineluttabilmente morale e potere? Gli argomenti affrontati sono stati tantissimi: dallo sbarco degli albanesi sulle coste pugliesi, alla clonazione, dagli incendi alle alluvioni, dal terrorismo alle chat, dalle imprese spaziali alla disoccupazione e via così in quel caleidoscopio infinito che è “la nostra vita”. Sono stati coinvolti personaggi potenti come Clinton, Arafat, Haider, Bush... Ma soprattutto è stato raccontato il nostro Paese, in tutte le sue sfaccettature, politiche, sociali, di costume, culturali e anche sportive. E tra ricorrenze, spunti, argomenti particolari e parallelismi è stato tracciato anche un arco storico che va oltre il triennio di trasmissioni radiofoniche e che per brevi tratti abbraccia la storia d’Italia fin dal tempo dei Romani…

Nell’arco di tre anni personalmente ho scritto più di 300 “atti unici” che raccontano il nostro modo di essere, le nostre speranze. 300 atti unici in cui confrontarsi e rispecchiarsi. E la sensazione che “Teatrogiornale” fosse proprio uno specchio è emersa prepotentemente nelle “uscite” dagli studi. “Teatrogiornale” infatti è stato fatto più volte anche dal “vivo”, in diverse situazioni: durante aperture di mostre, nei musei, come al Palazzo delle Esposizioni di Roma, prima di sfilate di moda come a Palazzo Pitti a Firenze, alla fiera del libro di Torino, in veri e propri teatri e alla Stazione Termini. In particolare quest’ultima esperienza è stata molto significativa. Agli attori avevamo aggiunto uno strumentista ed una cantante che fungevano sì da colonna sonora al lavoro ma anche da “Sirene accalappia pendolari”. Avevamo trovato una postazione in un angolo della stazione, nella galleria sottostante i binari, e come la cantante cominciava ad effondere le prime note, subito accorrevano numerosi (circa 150 a rappresentazione) i vari passeggeri, turisti e semplici passanti della stazione. I temi trattati andavano dalla mafia, alla disoccupazione, dal calcio, alla politica. Quindi venivano esposti temi seri e semiseri, ma ogni volta l’attenzione e la partecipazione del pubblico è stata encomiabile. Chi si fermava (e non aveva nessun obbligo a rimanere essendo oltretutto la fruizione gratuita) restava fino all’ultimo, spesso commentando con noi, a rappresentazione avvenuta, il contenuto trattato nella pièce. Il lavoro, nel suo montaggio quotidiano, anche nelle uscite pubbliche era molto simile a quello fatto alla radio e come alla radio alla sera veniva recitato in “diretta” con gli attori al leggio, però coadiuvati dal vivo, invece che da semplici basi, da dei musicisti-cantanti. Nei tre anni di trasmissioni radiofoniche “Teatrogiornale” ha sempre incontrato, , un sempre crescente favore di pubblico, dimostrato non solo dagli ascolti sempre in aumento (fino ad essere quadruplicati), ma anche dalle numerose e-mail, dai messaggi, dalle lettere e telefonate ricevute. Una sfida sull’oggi e su noi stessi, sulle nostra storia, sicuramente riuscita, frutto soprattutto dell’entusiasmo di tutti coloro che vi hanno partecipato."

6) Qual è stato l'incontro che ha segnato maggiormente la Sua carriera?

"Facevo ancora l’attore quando un viaggio nelle Filippine mi diede la spinta decisiva a raccontare il Mondo non più attraverso parole di altri ma attingendo ai miei stessi sentimenti. ”Vedi Roberto – mi disse un missionario nel Mindanao - fa certamente comodo qualsiasi aiuto economico per il Terzo Mondo, ma finché non si volterà radicalmente pagina non cambierà mai nulla. Se esiste un Terzo Mondo vuol dire che l’uomo ha sbagliato. E’ la mentalità che va cambiata.” Tornato in Italia mi feci forza di questa frase e nel tentativo non certo di cambiare il Mondo ma almeno me stesso, decisi di abbandonare il lavoro d’attore per scrivere testi teatrali che proponessero temi a mio giudizio importanti per una crescita comune. Nell’arco di qualche anno l’esigenza di perseguire questa avventura è diventata sempre più forte, tanto che nel 2006 mi decisi anche a fondare l’Associazione Culturale Oltreconfine proprio per avere ancora più voce e libertà d’azione."

7) Che consigli darebbe ad un giovane drammaturgo?

"Di lavorare in teatro a tutti i livelli, ingegnandosi come attore, tecnico, costumista. Il lavoro di drammaturgo è incredibilmente artigianale. Se io non avessi cominciato fin da piccolo lavorando in un teatro di burattini, da ragazzo come tuttofare in una filodrammatica della mia città e poi non avessi fatto l’Accademia d’Arte Drammatica come attore e ancora non avessi fatto appunto l’attore non credo sarei riuscito a dare ai miei testi sufficiente “polvere di palcoscenico”."

8) Qual è il Suo sogno teatrale nel cassetto?

"Un’utopia: riuscire a scrivere un testo in un linguaggio universale, che possa cioè scavalcare i confini linguistici. Trovare un linguaggio che possa essere come la musica, che non abbia bisogno di traduzioni ma che possa essere compreso da tutti. Temo che sia impossibile, ma chi lo sa… magari ci riuscirà negli anni a venire qualcun altro e allora ne sarò anch’io felicissimo e con me credo tutto il pubblico di domani!"