COMPAGNIA ZAPPALÀ DANZA

SUDVIRUS

SUDVIRUS il piacere di essere terroni
da un’idea di Nello Calabrò e Roberto Zappalà
coreografie e regia Roberto Zappalà
con la partecipazione di Vincenzo Pirrotta (voce) e Alfio Antico (tamburi) e Puccio Castrogiovanni (marranzani)
danzatori: Gaetano Badalamenti, Maud de la Purification, Alain El Sakhawi, Liisa Pietikainen, Roberto Provenzano, Fernando Roldan Ferrer, Ilenia Romano
una coproduzione compagnia zappalà danza e Scenario Pubblico international choreographic centre Sicily
in collaborazione con Civitanova Danza/Amat, Fondazione Nazionale della Danza (Reggio Emilia) e GöteborgsOperans Danskompani (Svezia)

Sudvirus è la nuova coreografia della Compagnia Zappalà Danza che debutta a Civitanova Marche nell'ambito del Festival Civitanova Danza.

Lo spettacolo è lo sviluppo di una coreografia commissionata a Roberto Zappalà dal Goteborg Ballet (e debuttato all’Opera di Goteborg il 14 ottobre 2011 con il titolo sud-virus). L’idea di partenza era il desiderio di portare in Svezia qualcosa di ‘tipicamente’ siciliano come il disordine da contrapporre a qualcosa di ‘tipicamente’ svedese quale l’ordine, per osservare gli incroci che sarebbero potuti nascere da questo innesto.

Roberto Zappalà Danza

La parola "virus” significa "veleno": un elemento che contamina la cellula ospite in modo parassitario, modalità troppo spesso attribuita al Sud. Il desiderio di sovvertire questo cliché, di indagare nuove contaminazioni, ha trasformato Sud-virus in un progetto più ampio e complesso: attraverso la danza e il linguaggio del corpo, Sudvirus diventa una contaminazione di generi, forme, valori morali ed estetici.

Sudvirus è un mondo dove la musica ancestrale e ipnotica di Alfio Antico ai tamburi e di Puccio Castrogiovanni ai marranzani si insinua nelle melodie di Bach, Vivaldi e Paganini e dove l’irruenza della voce e della fisicità di Vincenzo Pirrotta - regista e attore tra i più interessanti del panorama teatrale contemporaneo - stravolge e corrompe parole, discorsi, significati.

La danza di Roberto Zappalà è terrosa, sporca, ha il sapore acre del dolore, è languida e struggente, fatta di scarti bruschi che spiazzano lo spettatore. Ma il Sudvirus è contagioso, se ha contaminato la fragilità disperata di una danzatrice finlandese (Liisa Pietikainen), la danza sensuale e regale della francese Maud de la Purification, la carica erotica dello spagnolo Fernando Roldan Ferrer, la fisicità ruvida e sfacciata del palermitano Roberto Provenzano, quella timida e mansueta del francese Alain El Sakhawi, la sicurezza sfrontata e l’immediatezza di gesti della siciliana Ilenia Romano, la gestualità melodica e sinuosa di Gaetano Badalamenti.

"Il piacere di sentirsi terroni" - Roberto Zappalà

«Ho creduto credo e continuerò a credere nella possibilità di riscatto della mia terra.

La terra che mi onoro di rappresentare, la terra che mi ha dato i natali, la terra che mi da quotidianamente gli stimoli creativi, la terra che non finisce mai di stupirmi, la terra che ha più contraddizioni che il mondo intero, la terra che porta con se le storie più affascinanti dell’intera “storia”, la terra che è stata conquistata da altre “terre”, la terra che ha contribuito ad educare il mondo, la terra che, ne sono certo, farà di tutto per sconfiggere la mafia, la terra che ha partorito Falcone e Borsellino, la terra che ha dato alla luce molte delle più belle opere letterarie e liriche, la terra dove ho la fortuna di vivere, la terra che non mi sognerei di abbandonare.

La terra che mi fa soffrire. La terra che mi fa soffrire per l’eccessiva inciviltà di una parte dei suoi abitanti, la terra che mi fa soffrire per l’indifferenza della maggior parte della politica verso l’arte, la terra che mi fa soffrire per l’abbandono della politica nei confronti del territorio, la terra che mi fa soffrire per come anche tutti noi trattiamo il territorio, la terra che mi fa soffrire per l’incapacità quasi totale nell’organizzare un appropriato sviluppo turistico.

La terra che mi fa sorridere per la gioia innata che i siciliani possiedono, la terra che mi fa gioire per il meraviglioso senso d’inventiva che i siciliani hanno. La terra che mi rende triste quando alcuni miei colleghi la attaccano con parole dure e non fanno nulla per cambiarla.

Ho difficoltà ad accettare ciò che si dice nel Gattopardo. (i siciliani non hanno voglia di migliorare perché si sentono perfetti.) Ed e per questa ragione che diversi anni fa ho intrapreso un dialogo più intimo, profondo e sincero con la mia terra. Ho incominciato a parlarle con durezza ma anche con rispetto e tenerezza e l’ho fatto, ovviamente attraverso il linguaggio del corpo. Ho usato, e continuo a farlo, un contenitore che si chiama “re-mapping Sicily”; spesso “nei miei lavori“ mi sono ritrovato a mostrare attraverso i corpi, la Sicilia, certa Sicilia, che vorremmo non esistesse più.

Mi sento di “appartenere”, perché come dice Gaber “l’appartenenza è avere gli altri dentro di se”; sento di avere dentro di me tutta la storia della mia terra, quella edulcorata e quella livida, le cose belle ma anche quelle negative, i comportamenti accettabili e quelli inammissibili.

Oggi, io immagino il nostro territorio come un enorme container di creatività, dove artisti provenienti dai luoghi più lontani possano esserne residenti, ed insieme agli artisti e agli intellettuali del luogo, possano rivitalizzare questo straordinario popolo per farlo riappropriare di quelle che sono le migliori caratteristiche che lo hanno contrassegnato nella storia; l’inventiva, la caparbia, il dinamismo, contribuendo in questo modo a una possibile rinascita.

Se il nostro territorio è malato, non è colpa del destino ma della nostra stessa gente, di noi stessi; è qui che bisogna agire e migliorare il livello, la qualità. Un faro da seguire dovrebbe essere la frase di Kennedy scritta sulla sua lapide: “Non chiedetevi quello che l’America può fare per voi, ma chiedetevi quello che voi potete fare per l’America.” Sentirsi cittadino non basta, è necessario osservare e fare rispettare la legalità, l'habitat, tenere anche sotto “osservazione” gli amministratori, facendo spesso il proprio dovere, in modo migliore e prima di loro.

Per noi artisti confrontarsi con il territorio vuol dire essere duri, violenti nel dare giudizi, criticare, distruggere per ricostruire, ma tenere sempre la freccia puntata sull’edificazione della bellezza, unico antidoto che possa riuscire a mettere in ombra la cultura della sopraffazione, della trascuratezza, della sciatteria, del disordine.

A un certo momento della mia vita ho sentito la necessità di ritornare nella mia terra per la forte attrazione che proveniva da essa: dall’Etna, mia biologica fucina di turbolenze emotive e creative (ci vivo proprio alle pendici). Mi sento figlio di madre Etna, che poi sarebbe un padre giacché è un vulcano, ma che noi tutti chiamiamo “a muntagna”. Mi sento anche un po’ vicino a Efesto, “fabbro”, manipolatore del fuoco e scultore di emozioni, che madre Etna difende dalle dispute con Demetra, della Terra custode e promotrice. Sento, infatti, forte, nella parte più poetica e meno materiale della mia vita, la loro presenza, il loro protagonismo, che contribuisce, e non poco, alla crescita del mio senso di appartenenza.

Io credo che un luogo debba sempre più recuperare il rapporto col proprio patrimonio; e una delle ricchezze più importanti da riconquistare è proprio l’uomo, il suo corpo, le sue idee, che sono e saranno sempre un’infinita e inesauribile risorsa.»