"IL TROVATORE"DI GIUSEPPE VERDI«Con nessun’altra delle sue opere, neppure con il «Nabucco», Giuseppe Verdi toccò così rapidamente il cuore del suo pubblico»: con queste parole il musicologo Julian Budden, autore di una monumentale monografia dedicata al maestro di Busseto, parlò de «Il trovatore». L’apprezzato melodramma insieme al «Rigoletto» e a «La traviata» fa parte della cosiddetta «trilogia popolare verdiana» (quella che «toglie il ruolo di protagonista al signore per affidarlo all’umile»). Il destino come motore cieco di ogni esistenza umana, l'amore e la sete di vendetta quali sentimenti che divorano la vita, e, sullo sfondo, armi, soldati, campi di battaglia e lo scoppiettio delle faville di fuochi guizzanti: questi gli elementi che plasmano la trama de «Il trovatore», melodramma in quattro atti e otto quadri ispirato a «El trobador», fosca tragedia di «cappa e spada» composta dallo scrittore spagnolo romantico Antonio García Gutiérrez e andata in scena nei primi mesi del 1836. Una quindicina di anni dopo il fortunato debutto teatrale, Giuseppe Verdi, rimasto colpito dalla trama e dalla potenza espressiva dei personaggi, commissionò la riduzione librettistica del dramma al poeta Salvadore Cammarano, con il quale aveva già lavorato per «Alzira», «La battaglia di Legnano» e «Luisa Miller». Nel luglio del 1852, quattro mesi prima che il compositore emiliano ponesse mano alla partitura dell’opera (la musica fu scritta nel novembre 1852, in poco meno di un mese, anche se sembra che il progetto fosse già tutto nella testa del suo autore dall’inverno precedente), il poeta napoletano morì e il suo testimone venne raccolto, anche su consiglio di Cesare De Sanctis, da Leone Emanuele Bardare. Il giovane scrittore completò il libretto seguendo gli appunti lasciati da Salvadore Cammarano e, su precisa direttiva dell’operista, apportò alcune aggiunte e piccole modifiche: cambiò il metro della canzone «Stride la vampa» (atto II, scena I), passando da due quartine di settenari a due sestine di quinari doppi, e scrisse i versi per i cantabili «Il balen del suo sorriso» (atto II, scena III) e «D’amor sull’ali rosee» (atto IV, scena I). Prima del debutto, lo stesso Giuseppe Verdi apportò, inoltre, delle modifiche ai versi finali dell’opera, che abbreviò per rendere più intenso il drammatico epilogo. La «prima» de «Il trovatore» si tenne il 19 gennaio 1853 al teatro Apollo di Roma e, superando problemi di ogni tipo (una piena del Tevere, l’elevato costo dei biglietti, i rapporti un po’ tesi fra i cantanti), incontrò immediatamente il favore della critica e dei melomani, anche grazie a un cast di assoluto rilievo, del quale facevano il tenore Carlo Baucardé, il soprano Rosina Penco, il mezzosoprano Emilia Goggi e il baritono Giovanni Guicciardi. Già in occasione di questo primo importante appuntamento si parlò per questo lavoro verdiano di «opera rossa»: una tinta forte e tenebrosa, magica e quasi selvaggia come quella del sangue, del fuoco e della passione colora il melodramma, la cui storia è piena di contrasti drammatici e di intrecci difficili da raccontare. Pur basandosi sul tradizionale triangolo tenore-soprano-baritono, il dramma ha, infatti, una trama giocata su flashback, dei quali è protagonista la zingara Azucena, un personaggio anticonvenzionale, tormentato e di grande potenza drammatica, parallelo a quelli del buffone Rigoletto e della prostituta Violetta. Un personaggio, questo, al quale dà voce e corpo un mezzosoprano e che è perno di un’allucinata azione parallela sospesa fra passato e presente. Al centro della vicenda, ambientata nella Spagna quattrocentesca e in un’atmosfera notturna, ci sono due fratelli, il trovatore Manrico e il conte di Luna, che non si conoscono e che si combattono. Entrambi sono innamorati della stessa donna, la dolce e angelicata Leonora, dama della regina d’Aragona. Il racconto della loro rivalità politica e amorosa, al quale porrà termine la morte della fanciulla contesa, si affianca alla progressiva rivelazione di un orribile antefatto: quindici anni prima, il fratello minore del conte era stato rapito ed ucciso da una zingara, determinata a vendicare la morte sul rogo della madre, accusata di stregoneria. Quella zingara viene, ora, riconosciuta in Azucena, che il conte è felice di poter incarcerare anche in odio al figlio di lei, Manrico. Ma, lentamente, emerge un’altra verità di quell’orribile notte di vendetta: turbata da atroci visioni dell’agonia materna, per un tremendo errore, la zingara gettò nel fuoco il proprio figlioletto anziché il bambino rapito, allevando quest’ultimo come proprio e tacendone a tutti l’identità. Le battute finale dell’opera, nelle quali avviene il fratricidio, vedono Azucena svelare il suo segreto al conte di Luna: «Egli era tuo fratello!», «Sei vendicata, o madre!». «Il trovatore» accosta una grande eleganza musicale, dalla scrittura a tratti quasi schubertiana, a una fantasia melodica straripante. Cori tripudianti dall’evidente enfasi guerresca si alternano a delicatezze estreme. Indimenticabili nell'immaginario collettivo restano arie come «Tacea la notte placida», «D'amor sull'ali rosee», il «Coro delle incudini» e la cabaletta «Di quella pira l'orrendo foco», motivo di eroica risolutezza con cui Manrico chiude il terzo atto e che è diventato famoso per quei do di petto finali, non presenti nella partitura originale verdiana e la cui aggiunta si deve, probabilmente, a Carlo Baucardé o ad Enrico Tamberlick. Tutto questo ha concorso a far definire dalla critica «Il trovatore» come l’opera più melodicamente bella, coinvolgente e ricca dell’intera trilogia; di notevole interesse per gli esperti del settore è, poi, anche la figura di Manrico, ultimo grande esempio di tenore eroico e lirico allo stesso tempo. |