MARIO MONICELLI: UN GRANDE DEL CINEMA

L’ultima intervista a Mario Monicelli, il regista scomparso nel 2010

Lei è nato a Viareggio il 16 maggio 1915, a ridosso della prima Guerra Mondiale, da una famiglia di intellettuali; suo padre Tomaso era un giornalista e un critico letterario e teatrale.

Sì, anche un autore di teatro.

La prima domanda che le pongo è questa: come ha trascorso l’infanzia e perché i suoi interessi si sono rivolti al cinema e non al teatro, pur frequentandolo tutta la vita.

Sono nato, intanto, in una famiglia numerosa; eravamo cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre è nato in provincia di Mantova a Ostiglia, un paese da dove però ha avuto la possibilità di trasferirsi a Roma e fare il giornalista e l’autore drammatico: scrisse un dramma, Il viandante, che ebbe grande successo; si parla del primo Novecento naturalmente. Lui era socialista e trattava sempre temi sociali, di riscatto, di lavoro.. in seguito fu anche direttore dell’Avanti e di altri giornali importanti.

La figura di suo padre, anche da un punto di vista ideologico, è stata dunque determinante per la sua formazione.

Per la mia sì, ma anche per quella di tutta la mia famiglia. Per la mia soprattutto perché io lo seguivo molto. Da Ostiglia lui si trasferì a Roma e noi con lui, anche se le vacanze e gli anni di formazione scolastica li trascorremmo quasi tutti a Viareggio: l’adolescenza vera e propria si è svolta quindi in Versilia, in Toscana.

Le estati a Viareggio, le ricorda come “tempi memorabili”, per citare Cassola.

Sì perché lì ho fatto tutte le scuole, tutte le amicizie; la mia adolescenza si è svolta lì. Tutte le mie esperienze di ragazzino, fanciullo, scolaro, giovinetto, giovanotto, si sono svolte lì.

Le amicizie dell’infanzia e dell’adolescenza sono più belle di quelle dell’età matura?

Certo, sono tenaci, molto tenaci, le ricordi sempre, la verità è che la mia conformazione è la spiaggia di Viareggio, la pineta, il mare, le barche, il nuoto, i ragazzi..

..che sono metafora di felicità.

Sì, certo. Poi ti viene la voglia di scappare dalla provincia per andare in città per fare qualcosa e, alla fine, la voglia di ritornare.. ma poi non si ritorna più (con rammarico).

Sì perché il mondo a cui si aspira diventa più deludente di quello dei “giardini perfetti” dell’infanzia.

Molto più deludente. Specialmente quello che ho vissuto io. La mia è stata una generazione educata dal fascismo, il popolo italiano era un popolo fascista; inneggiava al Duce, alla gloria, a Roma, all’Impero, alle colonie: era esaltato.

Anche la massa si lasciava plagiare dall’ideologia fascista

Era proprio devota al Duce, era felice di essere entrata in guerra quando ormai la Germania era arrivata a Parigi e quindi ci si doveva soltanto dividere le spoglie, pensa te… Errore.

Un periodo drammatico che lei ha vissuto in prima persona

Sì, ho anche partecipato alla seconda guerra mondiale! Ho fatto quattro anni in cavalleria. Sono stato in Iugoslavia, nelle truppe di occupazione, insomma ho fatto la guerra; per fortuna all’ultimo momento ho scampato la Libia, mi volevano mandare con i carri armati, ma poiché non si passava per il Mediterraneo che era diventato un mare della flotta inglese e quindi impossibile era traghettarlo, sono rimasto in Italia.

Ha sentito sulla sua pelle gli orrori della guerra, dunque

Sì, anche perché io ero antifascista e così mio padre.

Nel ’46 ha poi avuto una vicenda triste riguardo a suo padre

Sì, certo (elude la domanda).

Ritornando alla domanda iniziale, perché poi ha scelto di fare cinema e non teatro?

Perché nella ricerca di un lavoro, io e i miei fratelli, approfittando del fatto che mio padre era un importante giornalista prima del fascismo, seguimmo con interesse la sua professione anche se a me, già da piccolo, piaceva molto il cinema, mi affascinava questo mezzo che allora era molto popolare. Si andava in questi “cinemetti” dove lo schermo era una parete bianca dipinta malamente e lì si svolgevano delle vicende… cose meravigliose: battaglie, amori, cavalli in corsa…; io non capivo bene, ero bambino, cinque o sei anni, noi tutti non sapevamo bene se fosse “roba” vera o una finzione. Era una cosa magica, meravigliosa… io allora ero talmente affascinato che volevo entrare in quel mondo ma non sapevo come, non sapevo nemmeno cosa volessi fare: l’attore, il regista o chissà che… volevo entrare lì nel mezzo, per fortuna tanto ho fatto che ci sono arrivato, molto presto. A fare cose molto umili: l’attrezzista, l’aiuto trucco e così via; insomma piano piano mi sono infilato lì e ci son rimasto tutta la vita fino ad oggi…

…diventando un grande maestro. L’amicizia con Forzano e Mondadori è stata importante per lei?

Sì, molto. Con Mondadori facemmo dei cortometraggi in 16mm, uno dei quali, I ragazzi della via Paal, vinse un premio al Festival di Venezia. Tale vittoria mi diede la possibilità di entrare in una produzione normale importante e fare l’aiuto, l’assistente, non il regista naturalmente, ma intanto mi ero infilato in quel mondo. Da quel momento cominciai a lavorare solo per il cinema e non ho fatto più nulla nella mia vita.

Un mestiere ricco di successi! Lei è considerato il maestro della “commedia all’italiana”; in una intervista ha affermato che nella Storia del Cinema essa ha avuto la stessa funzione della commedia americana degli anni Trenta-Quaranta, uno specchio in cui gli Italiani potevano contemplare se stessi, i propri pregi e i propri difetti

Secondo me sì, una funzione importante; intanto, direi, economicamente; ma poi perché in un certo senso ha aperto gli occhi con ironia, con garbo e qualche volta con tratti un po’ duri, all’Italia che viveva il boom economico, un’Italia che si stava ricostruendo molto bene. Questa commedia ironizzava su tale boom e faceva capire che bisognava stare attenti, che si poteva anche andare a gambe all’aria… Come infatti è finito. La generazione successiva ha approfittato del benessere che noi le avevamo riconsegnato nella ricostruzione per protendersi verso il consumismo e la globalizzazione.

Per produrre nella società italiana, ed occidentale, quelle “vite da scarso” rilevate da Bauman nelle sue acute analisi sociologiche

Eh sì!

Siamo considerati tutti consumatori e quando non siamo tali, siamo “vite da scarto”, non più utili alla società

Non siamo neppure produttori ormai, non siamo né consumatori, né produttori, caso mai siamo consumatori a scapito di altri, abbiamo vissuto per secoli (tutto l’Occidente l’ha fatto) sulla pelle di sterminate culture, disperate, di indiani, di cinesi, disperate [rafforza il concetto] di africani che ci hanno fatto campare e, adesso, che tentano di venire a vivere meglio da noi, gli spariamo addosso se vediamo che attraversano il nostro mare. Questa è la situazione.

Nella Grande Guerra, un film del ’59, dopo circa quarant’anni desacralizza l’eroismo agiografico del tragico conflitto mostrando dei personaggi pavidi, sempre pronti a mille espedienti per salvare la pelle, ma capaci alla fine di un incredibile atto di eroismo. Ha inserito, inoltre, l’elemento comico che permea di sé la componente tragica scavando a fondo nei personaggi alla stregua di grandi drammaturghi come Shakespeare o Pirandello

Certo, ma questo è naturale, la vita è così. Se uno vuole raccontare la vita così com’è, non la può raccontare sempre e solo drammatica, tragica, disperata tra grida e pianti in quanto in essa ci sono anche gli elementi di ironia, di comicità così come non si può raccontare soltanto di una vita facile, divertente perché prima o poi si incontrano i dolori che fanno capire di che tempra, di che misura è l’uomo, ed è lì che si rivela la sua qualità.

La “commedia all’italiana” inserisce dunque nel cinema la componente comica, anche se acre e pungente, pressoché assente nel Neorealismo. Lei poi ha dato una connotazione nuova ad attori come Gassman che avevano fino ad allora interpretato solo ruoli tragici (nel ’52 era stato il protagonista della prima versione integrale dell’Amleto di Squarzina). Come farà in seguito con Monica Vitti

Sì anche la Cardinale me la sono inventata io. Un po’ con tutti ho fatto così. D’altra parte la sostanza della «commedia all’italiana» è quella di una commedia drammatica. Amici miei, ad esempio è un film della vecchiaia, della morte, della fine.

Forse quel film è la fine della «commedia all’italiana», con quei giochi tragici perpetuati fino all’ultimo secondo di vita

Fino all’ultimo, fino alla confessione nell’articulo mortis.

Gli sceneggiatori, Steno, Age, Scarpelli, Susi Cecco D’Amico e altri, sono stati importanti per lei?

Fondamentali. Ho lavorato solo con un gruppo di una mezza dozzina di persone: scrittori, sceneggiatori… sempre gli stessi.

La fine della collaborazione con gli sceneggiatori, Steno ad esempio, avveniva per mancanza di creatività o per altri motivi?

Eravamo tutti vecchi, stanchi e non trovavamo più riscontro con la realtà, eravamo anche esauriti comunque. Alcuni erano morti, altri erano spariti, altri si sono “acquattati”, insomma il tempo passa, caro.

Nei suoi film è riuscito a valutare in modo magistrale, come soltanto Pasolini saprà fare in Uccellacci e uccellini e in A cosa servono le nuvole, la maschera tragica di Totò, un attore «tanto tragico quanto dissipatore di se stesso». Come è stato il suo rapporto con questo grande attore?

Meraviglioso. Ho fatto cinque o sei film con Totò. Era un maestro per come affrontava i personaggi, la vita: gli scarti, le intonazioni che dava a certe battute che gli erano state assegnate erano assolutamente impensabili, era un attore che sorprendeva sempre. Tu gli costruivi un certo personaggio e lui lo faceva ma con uno scarto che non avresti immaginato.

Secondo lei si è poi rovinato con un’eccessiva partecipazione a film di cassetta o ha mantenuto costanti le sue qualità di attore?

È stato sempre grande. Dovunque appariva voglio dire. Qualunque stupidaggine o battuta facesse, il pubblico sentiva che sotto c’era una qualità sopraffina di attore.

E Fabrizi?

Anche Fabrizi era un attore di grande qualità ma non all’altezza di Totò.

Dunque Totò, tra tutti gli attori con cui ha lavorato, è stato il più grande?

Sì, il più grande e anche il più misterioso e insondabile.

Recentemente ho assegnato una tesi sull’attore partenopeo e ho appreso molti aneddoti specialmente riguardo ai suoi rapporti con le donne

Era un uomo profondissimo e… insondabile, come ho detto.

E anche di grande umanità come si percepisce nella toccante lirica A livella

Una poesia stupenda.

I soliti ignoti, con la sceneggiatura di Age, Scarpelli e Susi Cecchi D’Amico, una sorta di parodia tutta italiana e piuttosto domestica dei film dei gangster americani, presenta una innocente banda di ladri che dopo una serie di fallimenti si accontenta di un piatto di pasta e fagioli

I gangster americani erano gente crudele e senza scrupoli, questi erano delinquenti per modo di dire, era brava gente che cercava di campare un po’ meglio e si dava una mano per sbarcare il lunario, accontentandosi alla fine di un piatto di pasta e fagioli.

Patetica e tenera l’espressione di Capannelle (Carlo Pisacane). Questi e Tiberio Murgia sono due attori non professionisti che lei ha impiegato nei suoi film e che ha preso dalla strada

Tiberio Murgia era un cameriere di un ristorante di Via della Croce che io frequentavo, “Il re degli amici”, si chiamava. Lui faceva lo sguattero, il servitore e basta. Nei miei film parla in siciliano ma era sardo.

Era un attore molto simpatico che ho incontrato qualche volta, era presente anche tra i fanti de La Grande Guerra

Capannelle invece era un napoletano che faceva l’attore di strada, raccoglieva un pubblico di bambini e faceva giochi di prestigio; io l’ho assunto come attore nei Soliti ignoti ma l’ho fatto parlare in emiliano, lui però era napoletano.

Non lo sapevo. Un’altra pellicola interessante è Cari compagni, del 1963, un film che si occupa di un tema sociale a lei caro

Sì, il diritto sciopero, addirittura l’assalto e l’occupazione di una fabbrica alla fine dell’Ottocento.

Con Mastroianni nel ruolo di un professore che spingeva gli operai allo sciopero

Sì, spingeva gli operai a scioperare e a lottare contro i padroni.

È un film che poi ha vinto l’Orso d’argento a Berlino. Lei è legato a quel film?

Molto, è un film piuttosto rispettato e trasmesso ma non è molto popolare perché esprime una sconfitta.

Lo conoscono in pochi tra i non addetti ai lavori ma tratta un argomento che sarà il leit motiv del ’68, quindi è anticipatore delle lotte di classe successive.

Certo, è un film anticipatore di quello che sarebbe accaduto.

Nel ’66 uno dei suoi lavori più belli, l’Armata Brancaleone, un Medioevo in chiave grottesca, una degradazione degli ideali cavallereschi e dell’amor cortese. Un film che lei ha definito “assolutamente nuovo” nel cinema italiano, in cui ha dovuto “inventare tutto” anche il linguaggio, una sorta di latino maccheronico e di un italiano arcaico che fa da contrappunto alle gesta mirabolanti, sgangherate e un po’ surreali del protagonista, Brancaleone da Norcia

Sì, un film di fantasia, di grande libertà espressiva e grande coraggio anche perché decidemmo di usare quel linguaggio. Il produttore si rifiutò di fare il film e dovemmo farlo gratis senza prendere denaro, per essere partecipi al progetto. È un film matto, folle, con quel linguaggio assurdo, come del resto il personaggio che andava predicando le crociate. È un film che ebbe un grandissimo successo anche se fummo costretti a farlo gratis.

Le ricerche linguistiche del film sono anch’esse all’avanguardia se si pensa a quelle successive di Testori, ad esempio, il “magma pluridialettale” della trilogia degli scarrozzanti, una contaminazione di dialetto lombardo, latino folenghiano, spagnolismi, francesismi ed espressioni ruzantiani. Le apparenti cadute di stile del film non sono altro che il ritmo delle goffi azioni dei personaggi

Infatti è quella la cosa che ha reso il film celeberrimo e di grande successo.

Lei è particolarmente legato a questo film?

Sono particolarmente legato ai film che hanno avuto successo e sono stati coraggiosi perché non li voleva fare nessuno come, per esempio, Un borghese piccolo piccolo.

Un film attualissimo se si osservano i fatti di cronaca contemporanei: la vendetta e l’omicidio concepiti e perseverati in ambito domestico. Il protagonista, interpretato con intensità da Sordi, si fa giustizia da solo

Un film tutto racchiuso nella sfera di questi personaggi: il padre, la povera vecchia madre e quel ragazzetto…

Sordi accettò con entusiasmo l’assegnazione della parte o rimase perplesso?

Rimase molto perplesso, discutemmo molto ma alla fine disse: «va bene, sì». Lui non voleva farla perché era una parte dura, non voleva interpretare un personaggio che potesse risultare antipatico o addirittura odioso, lui era molto amato dal pubblico.

Infatti il protagonista del film era odiosissimo

Alla fine, però, poiché lui aveva molta fiducia in me, ci credeva molto ed eravamo molto amici, si lasciò convincere e disse: «Ha ragione lui» (sorride divertito).

Ha seguito quindi tutte le sue indicazioni, le sue direttive. Quella poi è una delle maschere più inquietanti di Sordi

Terribile. È stato grandissimo in quella parte.

Il Marchese del Grillo era invece più congeniale alle sue caratteristiche interpretative

Certamente, quello era un film di divertimento, raccontava una Roma papale che non si conosceva bene, con un personaggio che non si sapeva se fosse vissuto realmente o appartenesse alla immaginazione popolare, esistevano però varie battute, scenette che abbiamo ripescato e inserito nel film.

Nel Novecento ci sono stati grandi artisti sia in ambito teatrale (Pirandello, Ionesco, Beckett, Pinter, etc.) che cinematografico, Bergman, Fellini, Visconti, De Sica e lei stesso. A suo parere in questo secolo è stato più importante il linguaggio del teatro o del cinema?

È difficile rispondere. Direi che è più importante quello del teatro ma è più difficile, non è popolare. Il cinema è più popolare, tutti lo conoscono. Gli autori da lei citati, Beckett, Pinter… sono per una classe più ristretta.

Il teatro è l’emblema della vita, nel senso che si consuma nel momento stesso in cui si realizza per riprendere il giorno dopo mai uguale a se stesso (un colpo di tosse dell’attore, una intonazione di una battuta, un gesto o un’espressione diversa lo rendono “mutevole” come l’esistenza, a differenza del cinema che riproduce il “già detto” e quindi l’immutabile)

Il cinema fissa un prototipo e questo secondo me è il suo limite. Se fosse possibile rinnovare ogni film, il cinema sarebbe come il teatro. Comunque il cinema è nato così, come nuovo mezzo di espressione di immagini in movimento, motion pictures, così si chiamano. Il cinema dovrebbe essere muto, non parlato. Dovrebbe essere composto solo di belle immagini mute che, montate le une con le altre, raccontano tutto quello che c’è da raccontare e infatti, per i primi vent’anni, il cinema è stato così. Sono stati girati bellissimi film drammatici, comici, farseschi, avventurosi, tutti muti, senza musiche, senza sonoro.

Quindi la parola, il suono o la musica tolgono qualcosa al cinema

La parola toglie sì, ha trasformato il cinema di immagini in un cinema, tutto sommato, molto teatrale che segue il dialogo. Quindi tutto ciò che si è aggiunto dopo è sempre una sottrazione al concetto di cinema come motion pictures. Sia il parlato che il colore, il sonoro, la musica sono tutte cose che fanno un “minestrone” che non è cinema.

Carmelo Bene affermava che non si può fare teatro con il teatro, né musica con la musica, come non si può vivere con la vita. Si può fare cinema con il cinema?

Era un grande Carmelo Bene. Se si fa cinema vero, sì… ripeto: cinema solo di immagini, solo di immagini (reitera il concetto).

In una intervista lei ha affermato che se anche tutte le sale cinematografiche dovessero chiudere, il cinema sopravviverebbe ugualmente

Sì perché esistono tanti mezzi per fissare le immagini e poi il cinema non consiste nelle sale cinematografiche, nello schermo, ma nel fatto che si creano delle immagini in movimento che, però, non sono fotografie o quadri, seppure meravigliosi. Il movimento comporta che si hanno dei tempi da rispettare; il montaggio è fondamentale, dà i tempi alle immagini e dà la struttura: il primo piano che deve durare dieci secondi, il campo lungo un minuto, un flash e così via. Insomma questi tempi, queste immagini mute costituiscono il cinema... non altro.

La vita è una bella avventura?

Sì, è una bella avventura, tanto bella. Quella che sto vivendo adesso è però una vita di merda, un’avventura schifosa che non vorrei vivere perché mi sembra di essere in mezzo al pus; questo mio scorcio di vita, con questa generazione bianca, selvaggia, proterva, corrotta, pronta a sopraffare, è una bruttissima avventura che vorrei scomparisse presto e rapidamente.

Grazie, maestro

Grazie a lei e buon lavoro. Mi mandi l’intervista, comunque.

Gianfranco Bartalotta