TEATRO GRECO

UNA RIFLESSIONE SULLE ORIGINI DEL TEATRO

Teatro Greco Taormina

«Il teatro greco ha una data di nascita: nell'anno 535 a.C. il tiranno Lisistrato riorganizzò le feste pubbliche in Atene e diede spazio a una forma di poesia ancora assolutamente sperimentale, la tragedia, per cui istituì appositi concorsi destinando a questo scopo il recinto sacro di Dioniso Eleutereo ("Liberatore") ai piedi dell'Acropoli. Secondo la notizia dei cronachisti antichi, il primo vincitore ai concorsi fu Tespi del demo attico d'Icaria, che durante la sessantunesima Olimpiade (536-533 a.C.) «per primo recitò e mise in scena in città un dramma: il premio era un capro». Tespi è un personaggio semileggendario a cui gli antichi attribuivano varie innovazioni, tutte fantasiose: si diceva che avesse inventato il trucco tingendosi la faccia con biacca e poi avesse introdotto la maschera e anche che vagasse con la sua compagnia di attori di villaggio in villaggio sopra un carro (il "carro di Tespi" di Orazio, Ars poetica, 276). Il carro di Tespi di cui favoleggiavano gli antichi è forse il ricordo di pratiche rituali: era usanza portare le statue processionali di Dioniso sopra carri o barche semoventi montate su ruote e restano anche confuse memorie di elementari performance mimetiche con sfilate di carri durante le feste dell'anno agricolo (gli «scherzi dal carro» di cui parla il bizantino Lessico Suda). Di Tespi si conservano i titoli di quattro tragedie e una manciata di frammenti, ma il tutto è probabilmente un falso di epoca posteriore; è noto che il peripatetico Eraclide Pontico, nel secolo IV a.C., compose drammi e li fece circolare attribuendoli a Tespi.

Che cosa fosse la tragedia in quei primissimi anni della sua storia non possiamo saperlo con precisione. Gli eruditi antichi amavano immaginare una sorta di antropologia teatrale primitiva: un rustico ambiente contadino, semplici compensi in natura per gli artisti, attori che si truccano il viso con biacca o mosto d'uva, un carro che vaga col suo carico di rudimentali costumi di scena, ossia lo spaccato di una comunità autosufficiente la cui vocazione è vendere illusioni a persone semplici.

La realtà fu ben diversa: il teatro greco non è il prodotto di un marginale ambiente contadino, ma un fenomeno centrale nella vita della città ed è solo apparentemente paradossale il fatto che gli spettacoli drammatici, patrocinati in origine da un tiranno, siano poi diventati l'espressione più significativa della civiltà democratica ateniese del secolo v a.C., l'epoca più alta e creativa della cultura greca. Il dramma greco non nasce nell'ambito degli attori che lo improvvisano; nasce dall'opera consapevole di un poeta che compone per un pubblico cittadino, il quale è, in un certo senso, il vero padrone del testo, in quanto suo committente e destinatario.

Il teatro greco fu un fenomeno politico, vale a dire una manifestazione collettiva della polis, la città intesa come comunità di individui con pari facoltà di parola (isegoría) e pari diritti davanti alle leggi (isonomía): non un giocattolo di lusso per l'aristocrazia, come il teatro di corte europeo, e neppure un evento cultural-mondano come il teatro borghese, ma un rituale collettivo che coinvolgeva migliaia di spettatori, in sostanza tutti i cittadini maschi di Atene (è discusso se e in che misura vi partecipassero anche donne, bambini, schiavi).

maschere Teatro

Una delle caratteristiche fondamentali del teatro greco è appunto di mettere al suo centro la città; per usare una bella formulazione di J. P. Vernant, in Grecia è la città stessa che si fa teatro ponendosi sulla scena davanti ai cittadini, e di questa operazione il poeta, tragico o comico, è chiamato a fare da mediatore. Questo è evidente per la commedia, che tratta di eventi e personaggi di attualità, ma è altrettanto vero per la tragedia, nella quale il mito tradizionale viene tradotto in termini familiari alla cultura del pubblico di Atene e diventa materia di teatro solo in quanto perde il suo arcaico carattere tribale per diventare qualcosa di completamente nuovo.

Dovunque la scena di una tragedia sia ambientata, a Tebe come a Troia, dietro il tessuto del dramma s'intravede Atene col suo universo cittadino, dove le vicende degli eroi mitici vengono reinterpretate. La vicenda tragica non si può comprendere davvero se non all'interno delle dinamiche profonde della vita cittadina: il potere, le leggi, le istituzioni sociali, il conflitto tra individuo e società o, ancora, la vendetta all'interno del clan, la crisi dei rapporti familiari, la ribellione della donna all'autorità della famiglia. Quella dell'eroe sulla scena non è mai - salvo forse in alcuni drammi di Euripide, l'autore in cui Nietzsche identificò l'"assassino" della tragedia - una storia privata, così come manca nella tragedia greca il dramma d'amore che diverrà così centrale nella tragedia europea moderna: inevitabilmente la vicenda si dilata sulla società, il solo ambito, nella prospettiva dei greci, che dia un senso all'esistenza di quello che Aristotele definiva r«animale politico», l'uomo.

La dimensione sociale del teatro greco è perfettamente espressa da un elemento caratteristico della sua drammaturgia: l'azione si svolge all'esterno, in uno spazio pubblico, sotto gli occhi di tutti e in presenza di un coro che assiste alle vicende e ai conflitti dei personaggi; le scene d'interno sono escluse nel dramma greco dove anche ciò che è intimo e privato deve diventare pubblico e collettivo. L'interno - lo spazio in cui sovente avvengono le azioni decisive di un dramma, come l'accecamento di Edipo o l'assassinio di Agamennone - per gli spettatori greci è un esterno, vale a dire uno spazio dove lo sguardo non può penetrare: lì l'azione scenica, il dràma, non arriva e le cose che vi accadono possono essere soltanto riferite.

In Atene il teatro era un servizio pubblico (liturgia) la cui organizzazione veniva diretta e controllata dallo stato. L'autore era quindi esentato dalla necessità di andarsi a cercare un pubblico e i mezzi economici per sostenere lo spettacolo: a questo e a ogni altro aspetto organizzativo provvedeva infatti la polis, che d'altra parte si preoccupava di consentire a ogni cittadino di assistere agli eventi teatrali elargendo un contributo (theorikón) ai meno abbienti perché potessero pagarsi il biglietto. Il poeta deve quindi rispondere al pubblico della città nel suo complesso, non a un'élite, e deve farlo procurandogli il dolceamaro piacere di emozioni forti, «pietà e terrore» (come scriveva Aristotele); deve appassionarlo e commuoverlo, talvolta provocarlo e ammonirlo; deve celebrare la grandezza di Atene e della sua democrazia riproponendone sulla scena i valori; in definitiva, deve tradurre in termini teatrali il sistema culturale degli spettatori e il loro immaginario collettivo.

Il teatro greco era il momento culminante di un rituale cittadino in cui, all'inizio della primavera, si celebrava il dio Dioniso e con esso l'anno nuovo che riprende a fiorire. Il rapporto di Dioniso col teatro è ambiguo e complesso. Dioniso era un dio della natura vegetale e in particolare della vite e della vinificazione; presiedeva inoltre a culti orgiastici praticati soprattutto da donne, che comprendevano musica e manifestazioni di trance ed erano effettivamente praticati in alcune zone della Grecia anche in epoca storica. Di questi riti le Baccanti di Euripide offrono una descrizione affascinante e terribile. Non è del tutto chiaro il motivo storico per cui Dioniso divenne il patrono degli spettacoli teatrali in Atene; una delle ragioni fu probabilmente la connessione delle manifestazioni teatrali primitive con feste agricole della vegetazione, durante le quali si praticavano forme mimetiche con finalità rituali. L'ipotesi ritualistica sull'origine del teatro greco, per quanto non dimostrabile con certezza, conserva la sua forza; del resto il più antico rappresentante di questa teoria fu Aristotele, che collegava la nascita della commedia a feste contadine della fecondità (le «falloforie»).

Peraltro Dioniso, appunto in quanto patrono di manifestazioni psicologiche estreme come l'ebbrezza e la follia, nel pantheon greco era il più adatto a rappresentare l'illusione teatrale, che è fondata su una sospensione della nozione di identità e sulla volontà del pubblico di accettare il gioco scenico e farsi coinvolgere nella finzione drammatica. La prima definizione dell'implicito patto che si stabilisce tra scena e pubblico, senza il quale non è nemmeno pensabile il teatro, risale al sofista Gorgia, che negli ultimi decenni del secolo v, parlando della tragedia, scrisse che «in essa il più saggio è colui che più si lascia ingannare», ossia coinvolgere nell'illusione che gli attori sulla scena costruiscono alla fantasia degli spettatori. La presenza di un aspetto visionario e della volontà di illudere e di autoilludersi è tanto più rilevante in quanto il teatro greco non fu naturalistico, ma fortemente convenzionale: più che le azioni, erano le parole degli attori a generare nella fantasia degli spettatori non solo le emozioni ma anche gli spazi e i tempi dell'azione, mediante quella che si definisce scenografia verbale.

Dal punto di vista della psicologia della comunicazione, l'atteggiamento del pubblico ateniese era condizionato da un'abitudine secolare all'ascolto collettivo. La letteratura greca infatti fu sin dalle origini orale, concepita quindi per essere recitata da un esecutore in una pubblica performance e non fruita nell'isolamento della lettura. La rappresentazione teatrale non fa altro che amplificare il modello comunicativo praticato dai rapsodi che si esibivano declamando episodi di Omero. Il pubblico ateniese trasferì sul teatro la sua abitudine all'ascolto e alla visualizzazione del testo; e per questo motivo il dramma greco non ha bisogno di tanti strumenti per funzionare: a visualizzare la suggestione di un paesaggio, la violenza di un gesto, persino l'atteggiamento di un viso che piange o ride (che agli spettatori resta invisibile, coperto com'è dalla maschera) bastano le parole dell'attore.

Il dio della follia e dell'ebbrezza, quel Dioniso grazie al quale i contorni della personalità si dilatano, è lo stesso che presiede all'illusione che si delinea quando ci si abbandona al fascino della finzione scenica; nel teatro greco quest'ambigua nozione di identità era ancor più esaltata dall'uso della maschera. La maschera è lo strumento che consente a una persona di alienarsi da sé per assumere provvisoriamente una differente personalità attraverso il cambiamento del primo e fondamentale elemento di riconoscimento, vale a dire il volto; è un mezzo nello stesso tempo profilattico (perché protegge la persona che la indossa dall'assalto di forze maligne) e magico (perché favorisce l'ingresso in un'altra personalità), e infatti la maschera è universalmente impiegata con questo scopo nei rituali e nelle danze di ogni popolazione. L'uso della maschera ha inoltre importanti conseguenze sul piano dell'estetica teatrale: neutralizzando il viso, essa crea un diaframma nel processo d'identificazione tra spettatore e attore ed esalta altri aspetti della rappresentazione (in particolare la voce e la gestualità). L'impiego della maschera nel teatro si collega a un sottofondo magico-rituale: in Grecia il suo uso è testimoniato nel culto di varie divinità (come Artemide Ortia a Sparta), come elemento di compenetrazione tra il dio e il fedele. Anche Dioniso era venerato talvolta in forma di maschera appesa a un albero e nelle processioni dionisiache il mascheramento era di rigore». - Giulio Guidorizzi

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