RIFLESSIONI SULLO STATO DEL TEATRO ITALIANO

Crisi del Teatro

IL TEATRO È IN CRISI?


I termini Teatro e crisi costituiscono oramai, nel lessico della maggior parte degli operatori teatrali nostrani, quella che in linguistica si definisce una collocazione: un'associazione abituale di una parola con un'altra.

In realtà potremmo ricercarne l'origine nelle numerose cassandre abituate a proiettare la propria personale sventura artistica sull'intera arte. Il pubblico, infatti, non sembra pensarla allo stesso modo.

E' illuminante rileggere quello che già Silvio D'Amico, in un noto articolo scritto addirittura nel 1928, affermava intervenendo su un dibattito già allora d'attualità.

Scriveva infatti il famoso critico teatrale: «Crisi, di che natura? D'ordine economico? O è com'è dunque organizzato questo Teatro moderno, se per vivere non gli basta un sì largo concorso di pubblico, ma ha bisogno d'esaurire letteralmente i biglietti tutte le sere? [...] Ci siamo ricordati delle parole con cui l'altr'anno Firmin Gemiér, attore insigne, direttore dell'Odéon e presidente della Societé Universelle du Théâtre, replicava alla inchiesta verbale che di là andavamo conducendo, sullo stesso argomento: «Oggi gli autori drammatici scrivono per i piccoli gruppi intellettuali, per una certa critica, per porre la candidatura all'Académie, non scrivono più per la folla. Sdegnano di fare quello che non hanno sdegnato Eschilo, Shakespeare, Calderon, Molière. E allora la folla, ch'essi affettano di ignorare, li abbandona... [...] La crisi del Teatro non è altro che questo: io credo che essa sarà risolta domani, dall'apparizione di uno scrittore di genio. Quanto ai teatri, si tratta di questioni particolari, relative a questa o quella amministrazione, a questo o a quell'artista drammatico... ». Son parole in cui c'è molto di vero. Il Teatro del tempo nostro manca, soprattutto, di “religiosità”: intendendo questo vocabolo nel senso etimologico. Ma è anche vero che c'è crisi e crisi. E che tra la “crisi” lamentata in Francia, o in Germania – fenomeno d'insoddisfazione che, accentuandosi quando più quando meno, ha accompagnato la vita del teatro di quasi tutti i paesi, anche nei suoi periodi più fulgidi (vedere, in un noto articolo del buon Sarcey, l'elenco dei volumi pubblicati sull'eterna crisi del Teatro Francese dal 1768 al 1889, ossia durante centovent'anni tra i più ricchi e produttivi della sua storia) – e la squallida crisi nostra, una comparazione non è neppur da tentare. [...] Quello che a noi italiani manca, e se siamo diventati rauchi a furia di ripeterlo non è colpa nostra, sono gl'interpreti. Sono quegli artisti che hanno il compito di prendere l'opera dell'autore e renderla intellegibile, col mettere scenicamente in valore tutti i suoi particolari, alla comprensione della folla. Noi contiamo ancora qualche grande attore, avanzo d'altre generazioni: noi contiamo tra i giovani, e fors'anche fra quelli che non fan parte del teatro ufficiale, molte eccellenti energie; ma ormai si tratta di fenomeni isolati. Manca a costoro la guida, il capo, il maestro. [...] Ora se il Teatro italiano vuol salvarsi, bisogna che si metta al passo con gli altri. [...] Che a ciò non può bastare la buona volontà dell'attore geniale, o del letterato improvvisatosi conduttore di compagnie, o del dilettante che crede al suo proprio entusiasmo come a un possibile surrogato dell'arte. Non è vero che in Italia manchino i mezzi. [...] L'uomo nuovo, in quest'arte, non è ancora apparso; e noi da troppi anni, ossia dalla prima costituzione d'una stabile subito andata a male, seguitiamo a procedere a tentoni. Improvvisare non si può più: né si posson più firmare cambiali in bianco. Bisogna muovere da una preparazione metodica: culturale, e tecnica. Bisogna girare il mondo, vedere quel che si fa altrove [...] Poi, ricominciare a lavorar sul serio fra noi: e non, s'intende, per copiare gli altri, ma per tentar di scoprir e, dopo la chiara consapevolezza delle conquiste altrui, se stessi. Intanto, la miglior cosa da fare, è forse di rinunciare al salvataggio del Teatro italiano così com'è. L'antichissimo edificio, dopo millennii di gloria, è divenuta una crollante baracca: ha esaurito il suo compito. Lasciamo che si sfasci. Noi non possiamo non aver fede nelle energie della razza: mille segni sporadici ma vivi ci han detto che le sue virtù non sono spente. Per questo crediamo, sappiamo, che domani qualcuno ricostruirà; ma sulle rovine."

Il teatro è dunque in crisi? Se ci rifacciamo, sulla scia di D'Amico, al significato etimologico del termine crisi, (dal greco scelta, separazione, momento che separa una maniera di essere da un’altra), sì, è ormai da tempo in atto una rottura, tra due modi di fare e concepire il Teatro. Ma il Teatro non è morto. Anzi! Il Piccolo di Milano ha chiuso la passata stagione con 271.000 spettatori (non pochi...), il rapporto di Federcultura ci dice che nell’ultimo decennio gli italiani sono andati di più a teatro (+17,7%), le scuole di Teatro prosperano e compagnie amatoriali sempre nuove si affacciano sulla scena.

Che crisi è dunque? Probabilmente, come già evocava D'Amico ben 85 anni fa, è crisi generazionale, crisi di identità, crisi di opportunità. Non di amore e passione per il Teatro, non di pubblico quindi.

Soffermiamoci a pensare al successo ed alla ricchezza artistica delle compagnie amatoriali. Il Teatro amatoriale assolve infatti a quella funzione la cui assenza era già lamentata da Silvio D'Amico come anche da Dario Fo. Funzione che è alla radice della crisi del Teatro. E che di crisi solo di certo Teatro si tratta, basti pensare al successo di realtà come I Legnanesi. Funzione ben espressa già nel 1951 da Andrè Bazin, fondatore della prestigiosa rivista dei Cahiers du Cinéma, dalla quale si è sprigionata la Nouvelle Vague, che, in rapporto ad un presunta concorrenza tra Cinema e Teatro, scriveva: "La separazione fra il popolo e il Teatro non data dalla serata del Grand Café del 1895. [...] Quanto ai teatri seri, è evidente che si tratta in gran parte di una clientela che non va al cinema e, per il resto, di spettatori capaci di frequentare l'uno e l'altro senza confondere i propri piaceri. In verità, se c'è occupazione di terreno, non è quella dello spettacolo teatrale, come esiste adesso, ma piuttosto del posto abbandonato da molto tempo dalle forme defunte del Teatro popolare. Non solo il cinema non entra seriamente in concorrenza con il palcoscenico, ma anzi è in procinto di rendere, ad un pubblico per esso perduto, il gusto e il senso del Teatro. [...] Lo stesso fenomeno si è verificato nel rapporto fra la fotografia e la pittura. E' un luogo comune affermare che l'una ha dispensato l'altra da quanto le era esteticamente meno essenziale: la rassomiglianza e l'aneddoto. La perfezione, l'economia e la facilità della fotografia hanno alla fine contribuito a valorizzare la pittura, a confermarla nella sua insostituibile specificità".

Traiamone una lezione, memori di quanto preconizzava Jerzy Grotowski: "Da dove può venire il rinnovamento? Da gente scontenta della situazione del teatro normale e che si assuma il compito di creare teatri poveri con pochi attori, "compagnie da camera" [...] oppure da dilettanti che lavorando al margine del teatro professionista, da autodidatti siano arrivati ad uno standard tecnico di gran lunga superiore a quello richiesto nel teatro dominante; in una parola, pochi matti che non abbiano niente da perdere e che non temano di lavorare sodo."

Viva il Teatro!